L’Italia, Stato d’eccezione perenne. Dalla sovranità al lavoro, ecco come ci hanno svenduti

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di Roberta Barone 

L’Italia, da qualche anno, è un Paese affogato in una costante condizione di emergenza, talmente grave (come vogliono farci credere) da riuscire però a cancellare, in così poco tempo, diritti e conquiste sociali in nome di politiche liberiste da cui spesso veniamo distratti, badate bene, anche in nome degli stessi “diritti civili”. È un paradosso assurdo, un discorso apparentemente contro senso ma che merita una riflessione più attenta.

Per capire cos’è lo “Stato d’eccezione” bisognerebbe forse partire dall’ontologia politica di Carl Schmitt, il quale ci parla di una particolare condizione di potere politico che si manifesta in situazioni particolarmente gravi e che consentono deroghe singolari al rispetto del diritto, permettendo o imponendo la sospensioni delle leggi scritte col fine ultimo di “salvare il Paese” anche a costo di sacrificare diritti fondamentali e individuali. Quando si verificano eventi così gravi, come guerre o tumulti sociali tali da rendere difficile il ripristino della condizione antecedente allo stesso evento dannoso, allora Schmitt individua una netta divisione tra legalità (conformità alle leggi) e legittimità (rispondenza alla giustizia, ai principi morali). Questa separazione, apparentemente poco importante, diventa di fatto la condizione ultima per dotare di sovranità “chi decide sullo Stato d’eccezione“. Il che implica, proprio per chi denuncia gli eventi dannosi (vedi i vertici europei in tema di crisi economica), il potere di prevalere sul principio di legalità ed imporre – il più delle volte indirettamente – le proprie condizioni a coloro che di quello stato d’eccezioni diventano vittime, soggetti passivi, costantemente passivi fino a perderne la cognizione.

Ma la condizione più grave si verifica nel momento in cui questo Stato di eccezione o “sospensione del diritto” diventa paradossalmente legalizzata (teoria di Giorgio Agamben), seppur con una estensione temporale che travalica di gran lungo la temporaneità e la necessità di urgenza che sono condizioni fondamentali per la sua stessa giustificazione. Ai nostri giorni, questo Stato d’eccezione rappresenta una realtà molto comune tra gli Stati liberal-democratici che vantano principi di uguaglianza e di legalità o che si riempiono tanto la bocca di solidarietà, per poi risultare complici di un sistema di soppressione degli stessi popoli- e con loro delle loro identità, della loro storia, della loro autonomia- che non possono essere identificati nelle stesse elite che detengono questo stesso potere. Nonostante ciò, i cittadini sono chiamati – attraverso il sacrosanto diritto di voto – ad eleggerli, a partecipare, a creare quella “legittimità popolare” che tanto pesava una volta in termini costituzionali.

Di Stato di eccezione ne abbiamo sentito parlare in Italia con l’instaurazione del primo Governo tecnico imposto proprio nel 2011: cosa è cambiato da quel momento ad oggi? Guardando da una prospettiva più distante- ovvero dai nostri giorni- ci ritroviamo in un Paese completamente succube di scelte politico/finanziare che non sono (e non possono essere) farina del proprio sacco. Sono infatti metodi di ingerenze che si manifestano espressamente (attraverso direttive comunitarie che lasciano allo Stato membro dell’Ue la sola discrezione nel decidere i mezzi con i quali attuarle) o implicitamente (ponendo a capo, o tra i vertici delle istituzioni politiche personalità già conosciute in certi ambienti e certamente fidate). Gente “gonfiata” di potere per quei pochi anni (o anche uno) necessari a far passare determinate riforme o firmare precisi trattati, accomunati da fini che quasi mai combaciano con quelli dei cittadini o, meglio, del Paese che le attua.

Le riforme italiane degli ultimi anni tendono a questo: cessione di sovranità, svendita del patrimonio, privatizzazione, precarizzazione del mondo del lavoro. In pochi anni abbiamo permesso che si introducessero il fiscal compact, il Mes, che toccassero la Costituzione, che distruggessero ogni tutela per i lavoratori, che tassassero i terreni agricoli e che riformassero perfino la scuola, mascherando logiche di mercato con aumenti di occupazione e nuove assunzioni. E adesso ci ritroviamo con un governo di “sinistra” che attua politiche neoliberiste che nemmeno una certa destra avrebbe potuto fare. Una sinistra svuotata di ogni contenuto, di ogni ideologia e colma di logiche partitiche fini a se stesse. Le stesse forze di sinistra di cui per anni i vertici di questa Unione Europea si sono serviti per accaparrarsi più efficacemente il consenso popolare e diffondere idee di “integrazione” (quella Europea) che piuttosto hanno portato disunione, individualismi, conflittualità. Quelle stesse forze di sinistra che oggi si danno da fare per introdurre un’ideologia nelle scuole, quella gender, per diffondere l’idea che l’identità sessuale sia solamente una costruzione culturale. Quelle stesse forze, insomma, che di fronte all’inutile dito puntato agli immigrati da parte di una certa “destra” miope dinnanzi lo scempio occidentale in Africa, non si fanno scrupoli a distrarre l’opinione pubblica sull’importanza dei “diritti civili” per nascondere in realtà politiche scellerate di fronte alle quali di diritti nemmeno ne esistono. L’Intellettuale Dissidente