Cinema. “Perfetti sconosciuti” di Genovese trionfa ai David. Ma perché non c’era Checco Zalone?

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di Valerio Musumeci

Da bravi, telefoni sul tavolo e vediamo che messaggi ricevete. Non che abbiamo tutta questa voglia di farci i fatti vostri – chi ha appena ricevuto un Wathsapp? Come sarebbe “Amore, stai leggendo Il Foglio”?! – ma l’avvenuta premiazione dei David di Donatello con incoronazione di “Perfetti sconosciti” quale Miglior film e Miglior sceneggiatura impone di riconsiderare il nostro feeling con il telefonino alla luce di rapporti di coppia, problemi coniugali e psico-pato-tecnologie assortite. Il film, lo sapete, è uscito a febbraio ed è andato benone, tanto che i mercati stranieri ne hanno chiesto i diritti per riedizioni in lingua: il che è più costoso di un doppiaggio, indica un interesse sostanziale alla storia, al contenuto piuttosto che al contenitore. I tedeschi pare ne siano innamorati: vuoi mettere la voglia di scoprire a chi piaccia maggiormente il wurstel tra moglie e marito? In realtà l’opera di Paolo Genovese vorrebbe essere più introspettiva, centrata sui sentimenti attraverso lo scatenante elemento cellularistico, per indagare cosa si celi dietro la nevrosi di Eva e Rocco e Cosimo e Bianca e Lele e Carlotta e il solitario Peppe. E ci riesce, fatte salve alcune cadute omosessualistiche, come rileva peraltro un critico d’eccezione sul suo profilo Facebook.

«Su “Perfetti Sconosciuti”, fresco vincitore come Miglior film del David di Donatello, un amico scrive: “Mi è sembrata la solita botta di propaganda dove tutte le coppie etero per un motivo o per un altro fanno schifo ed invece alla fine il migliore è l’amico gay oggetto di omofobia da parte degli altri!”. Ammetto di aver pensato le stesse identiche cose all’uscita dal cinema». Così Mario Adinolfi scrive sulla sua pagina, e continua: «Il film è ben scritto e ben recitato, credo che non abbia rubato il premio. Il punto è: perché non ha vinto “Quo Vado?”. Anzi, non è stato neanche candidato. Checco Zalone è Alberto Sordi, qui abbiamo già spiegato ampiamente come e perché. Ha incassato 70 milioni di euro (il doppio di tutti i film premiati dai David messi insieme) e ha raccontato l’Italia, non il quartiere Prati di Roma. Colpe imperdonabili?». Come non essere d’accordo? Appunto su queste colonne abbiamo scritto a lungo del fenomeno Zalone e del paradosso della maschera: lui porta al cinema con stragrande successo quella dell’italiano medio e la gente, cioè i pochi snob che non hanno visto il film, lo accusa di essere egli stesso quella maschera. Ma abbiano fiducia Checco e Mario: dicevano altrettanto di Totò, e nel quarantanovesimo della scomparsa, l’altro giorno, l’Italia lo ha ricordato con un trascinamento che nemmeno se fosse mancato il primo attore italiano vivente. Ci vuole il drammaticissimo oltretomba per convincere certi figuri di essersi sbagliati. La critica – buona quella – non riesce ancora ad infrangere il soffitto di vetro del proprio disinganno. Verrà il tempo che Zalone sarà ricordato unanimemente come il geniaccio che è.

Ma torniamo a “Perfetti sconosciuti” e ai cellulari sul tavolo. La discussione può virare su temi profondissimi: cosa sono i telefonini se non delle scatole nere della nostra coscienza, la quale coscienza un tempo non aveva bisogno di alcun supporto informatico per funzionare? Il nostro Giovanni Marcotullio – tutto in famiglia, oggi. Telefoni sul tavolo ho detto! – dedicava al tema, qualche settimana fa, un editoriale vertiginoso nel quale il film premiato ai David veniva citato di passaggio, e non in modo molto indulgente: «Lo smartphone è un’icona plastica della coscienza – scrive il nostro – almeno di come la vive l’uomo del nostro tempo: alcuni temono di perdere un backup del cellulare poco meno di un incidente che tocchi la memoria (lo stesso termine “memoria” dovrebbe ormai essere ulteriormente specificato, per far capire che della facoltà psichica di ritenere il passato qui si tratta, non di un pendrive); la metafora è così calzante che si proietta ora nelle sale un film – “Perfetti sconosciuti” – in cui 97 minuti di pellicola girata al cento per cento in un appartamento (roba che neanche Joyce e Svevo …) si reggono sull’assunto “se non abbiamo niente da nasconderci, leggiamo ad alta voce quello che ci arriva sui cellulari”». I personaggi di Genovese (occorre ricordarli? Kasia Smutniak è Eva, Marco Giallini è Rocco, Anna Foglietta è Carlotta, Valerio Mastandrea è Lele, Edoardo Leo è Cosimo, Alba Rohrwacher è Bianca e Giuseppe Battiston è Peppe) si comportano come personaggi in cerca d’autore di un massacro permanente che non inizia e non finisce con la digitalità. Marcotullio proseguiva infatti scrivendo di argomenti lievi quali il terrorismo e la lotta al medesimo.

La stanza in cui si svolge la cena ha echi nobilissimi, ed è la scrittura precisa notata da Adinolfi: riporta direttamente a Yasmina Reza e al suo “Dieux du carnage” tradotto al cinema da un film strepitoso di Roman Polanski intitolato sempre “Carnage”. Certo, magari lì ci sono Jodie Foster e Christoph Waltz al posto di Kasia Smutniak e Marco Giallini, ma il tentativo di Genovese è lodevole e come si è detto il premio è meritato, sebbene talvolta si cada in roba contemporanea come descritto dal nostro direttore. Roba contemporanea lo spottino pro-gay, s’intende, mica il telefonino. Chi scrive è un avido lettore di carteggi ed epistolari: e nonostante fosse obiettivamente più difficile trovarsi a cena nell’Ottocento e poter mettere sul tavolo ciascuno le proprie centinaia di lettere per un confronto all’americana sui contenuti, la ratio dei diversi strumenti di comunicazione, l’antico e il moderno, il vecchio e il nuovo, è assolutamente identica. 

«Ho sempre trovato che il voler raccontare la vita segreta delle persone fosse un espediente interessante – commenta Paolo Genovese, autore anche della sceneggiatura –  ma non sono mai riuscito a trovare un modo per utilizzarlo finché non è arrivata l’idea del cellulare. In origine doveva trattarsi di un’unica scena, ma ci siamo detti “E se il telefono diventasse il protagonista del gioco?”. Più scrivevamo, più le cose venivano in mente. Si può parlare quindi di un’idea che è venuta e si è formata da sé». Nella migliore tradizione italiana. Quante volte Monicelli tirò fuori dei capolavori dai ritagli di tempo? L’accostamento è tutto strambo, lo sappiamo: ma la fortuna al cinema è anche una costante. Il fatto poi che i cellulari vivano un momento di inquietante protagonismo – ne arrivano messaggini? – avrà contribuito senza dubbio a far esplodere il successo di questo film. «Una volta i segreti erano nella nostra mente, ma con i cellulari siamo diventati più esposti – prosegue il regista – Li definirei il nostro tallone d’Achille, hanno la potenzialità di renderci deboli. Non si tratta di nascondere solo l’amante, ma possono contenere l’intera sfera del nostro privato».

Bene, insomma, bravi tutti. Ne deve passare di acqua sotto i ponti prima che si realizzi il riconoscimento di cui sopra al cinema vero di Zalone, ma nel frattempo non facciamo brutta figura. “Perfetti sconosciuti” tenta delle indagini, analizza dei risvolti, riflette su situazioni non così distanti da quelle che ci troviamo a vivere. Certo, nelle nostre vite non c’è l’afflato lirico o comico che segna alcune scene di questo film (lo sbroccamento di Peppe-Battiston strappa più di qualche risata), ma vederlo può magari innescare una riflessione. Purché non sia la solita che si risolve con il nonnulla che segna questi nostri tempi, e non resti soltanto il poco di un film dove in effetti c’è tanto. Il David di Donatello intanto se l’è preso, le riedizioni all’estero se l’è vendute. Ci riuscissero tutti il cinema italiano tornerebbe agli alti livelli del passato. Quando si premiavano i film di Fellini e si sfottevano quelli di Totò, per dire.