Mafia Capitale, aveva capito tutto Pippo Fava trent’anni fa

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di Valerio Musumeci

Parliamo di mafia. E iniziamo dalle basi. Che cosa è? Interrogato a proposito sette giorni prima di tirare le cuoia, Pippo Fava, colui che fece scoprire alla città di Catania che nel suo proprio seno essa si nascondeva (cosa fino a quel momento non ufficiale) e che per questa denuncia fu ammazzato a pistolettate all’uscita da un teatro catanese sito in una strada che oggi porta il suo nome, colui che fece fare ai catanesi questa clamorosa scoperta, interrogato da Enzo Biagi per la televisione, diceva: «Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. […] I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo… Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante. È un problema di vertici e di gestione della nazione, è un problema che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale definitivo l’Italia». Queste parole, messe nero su bianco, meritano una severa riflessione: i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. È un problema di vertici e di gestione della nazione. Ora, dov’è che sono i vertici e dove si gestisce la nazione? A Roma. Ecco che nel 1984 Pippo Fava aveva denunciato chiaramente, e perciò fu ucciso, lo scandalo di Mafia capitale.

Naturalmente il giornalista catanese intendeva ben altro che gli affarucci di Buzzi e Carminati, che nell’ultimo giro di inchieste arrivano forse a toccare un Sottosegretario di governo, il catanese (giustamente) Giuseppe Castiglione. Queste, l’ha detto bene Giuliano Ferrara senza essere minimamente ascoltato in quanto Giuliano Ferrara, sono puzzonate (Ballarò, 9/12/2014). Cos’è allora che Fava denunciò di così importante da diventare improvvisamente pericoloso? Non il complemento oggetto, cioè il chi e il perché – questo l’aveva fatto, memorabilmente, su scala locale con il famoso articolo sui Cavalieri dell’Apocalisse mafiosa – ma lo stato in luogo, cioè il dove. Dove sorge il fenomeno mafioso contemporaneo? Dove seggono gli ispiratori, le segrete energie capaci di manipolare uomini, interessi, denari? A Roma. Questa rivoluzione di pensiero rispetto all’idea locale di mafia, insieme all’altra messa nero su bianco da Giovanni Falcone sulla fisiologia della stessa («Certo dovremo ancora per lungo tempo confrontarci con la criminalità organizzata di stampo mafioso. Per lungo tempo, non per l’eternità: perché la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine». Cose di Cosa nostra, 1991), aprì una vera e propria stagione di consapevolezza popolare in Sicilia e scatenò sudori freddi in Italia e all’estero: e Pippo Fava morì. Non lo uccisero certo, ripetiamo, i predecessori di Buzzi e Carminati, ma l’aver identificato il luogo ove il fenomeno, germogliato secondo la linea della palma di sciasciana memoria, attecchiva.

Dunque Roma. Capitale del mondo, sede de: il Governo, il Parlamento, i ministeri e la Presidenza della Repubblica, le ambasciate di tutto il globo, la Santa Sede e lo Stato della Città del Vaticano, i servizi segreti italiani ed esteri, le redazioni di tutti i giornali. E’ evidente che Mafia capitale, in una delle città più sorvegliate del mondo, assuma le dimensioni giustamente dichiarate da Ferrara di un segreto di Pulcinella. Quanti prima di queste elezioni auspicavano lo scioglimento del Comune – poi comunque commissariato con la fine dell’era Marino – auspicavano una sonora sciocchezza. Perché la verità è che lo scioglimento dei comuni è inutile ovunque, stando alle parole del capo della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo Francesco Messineo,  audito dalla Commissione Parlamentare Antimafia il 17 marzo 2014: «Il punto è che, ovviamente, la mafia ha sempre avuto un notevolissimo peso elettorale, ha una forza elettorale difficile da stimare, ma che ammonta probabilmente a centinaia di migliaia di voti che possono essere mobilitati. […] Sono ben conosciuti i casi dei due presidenti della regione. L’indagine Lombardo non appartiene a noi, ma alla procura di Catania. Tuttavia, l’infiltrazione – che è già un termine piuttosto leggero – della mafia nelle strutture pubbliche si apprezza con molta evidenza nell’inquinamento della vita politica locale, cioè i comuni. Già solo l’elenco di tutti i comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, di quelli candidati allo scioglimento e di quelli per i quali sono in corso le attività conoscitive, che porteranno probabilmente a una proposta di scioglimento, dà un’idea di come la vita politica locale sia inquinata dalla mafia. […] Purtroppo, lo scioglimento del comune non risolve il problema. Finito, infatti, il periodo della gestione commissariale, sopportato come una periodica iattura, il gruppo mafioso riprende nuovamente il controllo, fa eleggere un nuovo sindaco incensurato, assolutamente insospettabile, una faccia pulita come si suol dire, e la vicenda riprende» (Resoconto stenografico Seduta n. 21 di Lunedì 17 marzo 2014)

Inutile sciogliere il comune, ma è vero che se la puzzonata fosse emersa a Catania il comune sarebbe stato sciolto. Il perché affonda le sue radici nel pudore di quel dove segnalato televisivamente da Pippo Fava: Roma, fosse anche stato utile scioglierla, non sarebbe stata sciolta. Perché è la capitale del mondo, perché vi sono il Governo, il Parlamento, i ministeri etcc …, perché è utile circoscrivere il fenomeno mafioso a quella dimensione locale tanto cara ai mafiosi stessi, da cui il familistico Cosa nostra, cosa piccola, il nostro focolare, quasi. Nell’inchiesta Mafia capitale, dunque, di mafia ce n’è poca. Ciò che era importante appurare era il luogo, Roma, ma Fava c’era arrivato trent’anni fa. E fu questo a fare scandalo, il dire che il crimine poteva entrare nei palazzi del potere invece di restare relegato in Sicilia, Calabria e Campania. Parliamo di mafia? No, parliamo di Italia. L’Intellettuale Dissidente