Si piange per i morti, si lavora per la vita

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di Valerio Musumeci

E’ deformazione professionale controllare le agenzie nel bel mezzo della notte, quando la mente sta per arrendersi al sonno e l’alba non è lontana da venire. In genere non vi si trova niente, stavolta vi si è trovato il terremoto. Forte, violento, in cittadine arrampicate in collina che non hanno saputo difendersi. Il sindaco di Amatrice grida il primo dolore, la frase che resterà il simbolo di questa nuova tragedia in un’Italia che non ne voleva di nuove. “Il mio paese non c’è più”, dice Sergio Pirozzi alla RAI. Dà tutta l’impressione di essere un uomo pratico, infatti fa l’allenatore di calcio. “Spero che tutti facciano il loro dovere – dirà qualche ora dopo – se no il mister Pirozzi entra a gamba tesa. A Renzi ho detto che qui si gioca la faccia dell’Italia intera”.

C’è venuto il presidente del Consiglio, in questo paese che in inverno conta meno di tremila anime e in estate diventa una festa di turisti, toccando le quarantamila persone. Troppe, si è detto, ma non è ancora il momento del giudizio e questo lo sa anche il premier, che oggi è qui a vedere un paese che probabilmente non aveva mai sentito nominare prima. Invece Amatrice c’è – c’era – c’è Ammucoli e c’è Arquata e ci sono migliaia di borghetti come questi, nel nostro Paese, che necessiterebbero di investimenti straordinari sulla sicurezza o forse solo di quel “rammendo” che Renzo Piano teorizzò pochi anni fa. Rammendare le vecchie case, cautelare i ponti, rinforzare le strade, sapendo che tutto potrà essere inutile di fronte alla forza della natura ma con la coscienza pulita di averlo fatto, di aver messo una toppa, di aver salvato il salvabile. Per non temere poi la dittatura del sospetto, la vergogna del “si sarebbe dovuto…”. Ci saranno inchieste, sembra tutto un capriccio della natura ma ci saranno processi e condanne. E sarà anche questo inutile, giacché la giustizia è costituzionalmente una balla, arriva a posteriori, i morti giacciono nei loro teli di plastica e nessuna carta bollata, nessun finanziamento, nessuna raccolta fondi li riporterà indietro.

Ma si lavora per i vivi, giustamente. Si lavora per la donna di novantasette anni che piange in strada, sempre ad Amatrice, non si sa bene se per il dolore di aver perso tutto o per quello di non essere morta. Si lavora per gli sfollati, per i bambini, per tutte le anime di queste città dimenticate in mezzo alla loro fragile pietra, per i campanili sopravvissuti che segneranno per sempre l’ora della scossa, per gli alberi divelti che erano vita anch’essi. Lavora la Protezione Civile che è un orgoglio mondiale, lavorano i Vigili del Fuoco e le forze dell’Ordine e tutti gli uomini validi che vogliono – devono – recuperare i dispersi e forse i loro cari. Lavorano gli extracomunitari di quelle zone, alcune decine, perché il dolore in questi casi dev’essere più forte delle scemenze del quotidiano, degli errori di una parte e dell’altra, della politica e degli affari e di tutto il resto. “Il mio paese non esiste più”, ha detto Pirozzo. E forse loro lo capiscono meglio di tutti, perché anche i paesi che hanno lasciato non esistono più.

Si lavora per i vivi e si lavora per la vita. Perché adesso siamo tutti lì, ad Amatrice, ad Ammucoli e ad Arquata, ma tra una settimana ci saremo di meno e tra un mese non ci saremo più, e allora toccherà agli abitanti andare avanti, tenere accesa l’attenzione, ricostruire la speranza di un futuro. Sperare che qui la vita possa ancora sorgere, che in questi paesi si possa vivere e amare, sposare e mettere al mondo un bambino. Riprodurre la vita, insomma, laddove adesso è soltanto nero e soltanto morte. Dove si scava a mani nude pietra da pietra per sperare di cogliere un respiro, dove si teme di incontrare con gli occhi il freddo di un cadavere. Morte e vita, è tutto lì. E’ la solita vecchia storia dell’esistenza, e di ciò che può succedere senza un perché. Come tante volte nel passato, come oggi.