Il Nulla arma il terrorismo. Parola di (infiltrato) jihadista

Sharing is caring!

maxresdefault

di Giuliano Guzzo

Il terrorismo islamista non è certamente nato in Europa, ma quello che insanguina il Vecchio Continente è, per molti versi, prodotto dell’incontro fra nichilismo occidentale e fondamentalismo religioso, due distinti estremismi che, saldandosi, generano una miscela micidiale. Lo scrivo da molti mesi attirandomi critiche di vario tipo, da quella di formulare indebite semplificazioni a quella di voler scagionare il mondo islamico dalle proprie responsabilità. Tutte critiche che rimando ai mittenti dato che di questa tesi rimango convinto e a darmi ragione, adesso, giunge l’eccezionale testimonianza – ripresa da L’Espresso – di Said Ramzi, pseudonimo dietro al quale si nasconde un ventinovenne musulmano francese, di origine araba, che di professione fa il giornalista.

Ebbene, Said Ramzi, con una telecamera nascosta, è riuscito ad infiltrarsi fra i simpatizzanti e gli affiliati di Daesh, l’acronimo arabo per lo Stato islamico. Posto che le sue osservazioni, pur preziosissime, non possono avere valenza generale né statistica, ha senso chiedersi: che ha scoperto questo coraggioso giornalista? Anzitutto, che molti aspiranti terroristi hanno prima vissuto sulla loro pelle il «rifiuto della società verso i giovani musulmani o arabi che è molto difficile da accettare»: non si tratta insomma di giovani socialmente integrati eppure – attenzione – si tratta comunque di soggetti che hanno fatto proprio il virus più diffuso, oggi, in Occidente: quello dell’individualismo menefreghista. «Quelli di Daesh non hanno alcuna intenzione di cambiare il mondo», dichiara Said.

Ed aggiunge: «Se ne strafregano, del mondo. Fanno tutto solo ed esclusivamente per sé stessi, per le loro vergini. In qualche modo, sono la quintessenza dell’ultra-liberismo. Sono dei mercenari, in fondo». La religione insomma c’entra, ma solo come «un pretesto», una sorta di ripiego totalizzante, di tragico antidoto ad una frustrazione esistenziale che i terroristi – quasi sempre giovani, insoddisfatti e soli -, più o meno consapevolmente, alimentano dopo che hanno «visto dei film porno e si sono immaginati al posto dell’attore protagonista» iniziando a sognare «un paradiso prêt-à-porter affollato di vergini». Prima di entrare in azione costoro, precisa Said, navigano spesso su internet scambiandosi «le foto dei vestiti di marca, è tutto un Nike di qua, un Gucci di là, sognano di macchine di lusso…».

Ora, che cosa insegna questa testimonianza? Che il terrorismo islamista, in Europa,  è davvero il prodotto dell’incontro fra il Nulla esistenziale – favorito dall’autoisolamento specie di chi ha origini straniere e stenta a trovare un suo posto al mondo, anche se è politicamente scorretto ricordarlo – e l’estremismo religioso. Realtà, quest’ultima, rispetto alla quale ha chiare responsabilità un estremismo islamico ben presente come dimostra – ironia della sorte, a poche ore dalle messe domenicali alle quali alcune migliaia di mussulmani ha voluto presenziare solidarizzando coi cattolici – l’arresto, presso la stazione di Venezia, di persone che poco prima erano state viste inginocchiate verso la Mecca e che sono state sorprese con documenti falsi, una pietra ed un machete nella borsa: non esattamente un bagaglio da “moderati”.

Dunque nessuno, qui, intende assolvere preventivamente il mondo islamico dalle proprie responsabilità né si vuole sorvolare sull’utilizzo di citazioni parziali del Corano, allo scopo di farlo apparire pacifico. Tuttavia sarebbe grave non osservare – con riferimento all’Europa – come il nichilismo occidentale, fatto di individualismo e materialismo, sia il grande detonatore che la malandata civiltà europea serve su un piatto d’argento a chiunque, futuri terroristi inclusi. Non è un caso che proprio i Paesi europei ritenuti più cattolici e meno secolarizzati – secondo le stime dell’International centre for the study of radicalisation and political violence su coloro che hanno lasciato l’Europa per divenire miliziani dell’ISIS – siano pure quelli nei quali il Califfato maggiormente fatica a reclutare miliziani: l’Irlanda, la Spagna e, felice ultima, la nostra Italia.

Vorrei pertanto che su questo, andando possibilmente oltre alla parolina magica dell’«integrazione» – processo decisivo, per carità, ma che una società dev’essere in grado di sostenere verso soggetti disposti ad integrarsi e, soprattutto, nei confronti di un numero limitato di persone, pena il rovesciamento dell’integrazione nell’invasione – si facesse finalmente un po’ più di autocritica. Mi pare infatti che sia coloro che denunciano l’invasione culturale islamica, risparmiandosi ogni ulteriore approfondimento, sia quanti ripiegano su posizioni buoniste, preferendo irresponsabilmente liquidare il terrorismo come problema psichiatrico, finiscono col tacere i malanni culturali di un’Europa che, secolarizzandosi, ha prosciugato quelle riserve di Senso non surrogabili da valori civili e necessarie anche ai nostri, di giovani. Quando avremo l’onestà di parlarne?