Emancipazione e regresso femminile (anche) in politica

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di Roberta Barone

Quando il direttore del suo giornale chiese ad Oriana Fallaci di scrivere “sulle donne”, lei quasi se ne vergognò, sentendosi a disagio di fronte una richiesta come quella. Perché scrivere sulle donne?, si chiese. “Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, soprattutto sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico” [1]. È il ritornello che accomuna tutte le donne del mondo: l’emancipazione, la parità, i diritti. Cambiano le note, cambia l’autore, cambiano le persone: ma cosa resta oggi di tutti quei traguardi, quelle corse sfrenate al progresso, quelle vittorie sociali a noi servite su un maledetto piatto d’argento?

L’antropologa Ida Magli non può che affrontare l’argomento partendo dal presupposto, certo ed innegabile, della preminenza dell’uomo nella società di ogni tempo e di ogni contesto storico, nella politica, nella scienza, nel lavoro e perfino nella Bibbia. “Il figlio di Dio è maschio e siede alla destra del padre. Destra e mascolinità dunque sono positive” [2]. Mentre alla donna sono sempre stati riservati quegli spazi sinistri inconsciamente correlati al fattore negatività: in chiesa, infatti, le donne potevano accedere solo alla crociera di sinistra, così come avveniva in ogni luogo pubblico. Perfino la sinistra politica fu inquadrata in Italia, come ricorda la Magli, in una certa identità rivoluzionaria capace di assorbire quelle idee, non solo femministe, tese a rovesciare significativamente quel rapporto di “negatività” che i cambiamenti sociali, economici e politici avevano inevitabilmente portato a galla.

Molti sono stati i filosofi, gli intellettuali, gli scrittori che si sono imbattuti nella marcia delle donne verso l’apice della giustizia sociale. C’è stato chi le ha sostenute e chi le ha semplicemente rese consapevoli, a proprio modo, della loro inarrestabile quanto inutile corsa alla felicità. Per fare un esempio, Schopenhauer, spietato com’era nella sua terribile arte di criticare, affermava l’incapacità delle donne di fare politica, di perseguire un interesse “puramente oggettivo”: costretta a contentarsi di un dominio diretto, diceva, la donna considera tutto solamente come “un mezzo per conquistare il maschio (…), il loro interesse per qualcos’altro si riduce a civetteria” [3]. Eppure la storia, di donne importanti e capaci ne ha avute molte; donne che non hanno avuto bisogno di attributi o di essere paragonate ad una qualità fisica maschile, per essere considerate intelligenti e coraggiose. Donne che, prime di essere donne, sono state delle persone capaci di far parlare di sé per gli anni avvenire, di lasciare un insegnamento così forte da mettere in dubbio perfino quelli di un qualsiasi Schopenhauer.

Di donne che governano buona fetta del mondo, anche il presente ne ha abbastanza. Da Angela Merkel alla Regina D’Inghilterra e così via, donne che tengono in pugno ogni minima resistenza al loro operato; risolute e decise, investite di un potere che, al contrario, le ha portate ad onorare molti uomini per una semplice stretta di mano. Ma quante donne oggi riescono a distinguersi nella società senza l’impellente bisogno di rimarcare le debolezze (a questo proposito volutamente tradotte in veri e propri privilegi) del proprio sesso?

Quote rosa, integrazione sociale, veri e propri “buchi” da ricoprire con l’ipocrisia di una parità imposta dagli stessi uomini, giusto per facciata o per commiserazione. E poi ancora visi d’angelo, a volte casuali, altre volte messi lì per rendere più dolce l’adozione di politiche tese a sconvolgere (in negativo) l’intero assetto nazionale. L’emancipazione che ritorna indietro attraverso l’esaltazione di se stessa, la “fiumana del progresso” che travolge tutti coloro i quali non sono stati in grado di cavalcare l’onda di un cambiamento che non abbiamo saputo salvaguardare. Maledetto quel piatto d’argento. Quel piatto che ci hanno servito per poi finire comodamente a commentare, sugli schermi di un Bruno Vespa di turno, “la bellezza che scende in politica”. La bellezza quale primario tassello per ricoprire una carica politica importante quanto la firma dei vestiti indossati o della borsa sfoggiata. E poi ancora risa e futili commenti intorno alla sfida di quegli uomini che fanno a gara per avere le donne più belle nel proprio partito. “Le donne di destra sono più belle di quelle di sinistra” (cit. Berlusconi).

E sempre lì, occhi sorridenti che nascondono invidie, voglia di prevalsa, manie di protagonismo e rimarcata invasione degli spazi altrui. Mentre la gente muore di fame soffocata da uno Stato che uccide (e non solo d’estate), mentre lo scopo originario della politica viene sempre più svilita, lontana ormai da quella concezione platonica, le donne di questa farsa politica si fanno promotrici della più profonda offesa verso le donne stesse: paragonarsi all’uomo, accentuarne la parità e poi ancora apparire come una specie protetta, non significa forse regredire? La proiezione, nelle istituzioni politiche, di quella triste realtà che non ci rappresenta; di quella “bellezza che non ci ha salvato”.

[1] Il sesso inutile- Viaggio intorno alla donna (1961)
[2] Dopo l’Occidente (2012)
[3] L’arte di insultare