La dittatura della “competitività” e ritorno al primitivo

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di Roberta Barone

La nozione di “competitività” è utilizzata quasi sempre in campo economico ma per nulla sbagliato è analizzare questo fenomeno dal punto di vista politico-sociale, considerando che è proprio nell’amministrazione della sua economia che uno Stato manifesta la sua sovranità ormai ceduta – nel caso italiano – incostituzionalmente all’Unione europea. Quest’ultima, intoccabile, sovraordinata, ricca di materia e povera di spirito, continua imperterrita a distruggere quell’antico sogno di un’Europa dei popoli ormai troppo lontana dall’attuale unione dei ricatti, dei rigori e dei compiti a casa. Altro che muro di Berlino, l’Europa dalle favole propagandistiche (Rai, “la mia Europa”) continua a costruire un muro di falsità fatto di silenzio e complicità, di imposizione e di connivenza, mentre il Paese della “Grande bellezza” viene ridotto a misero esecutore di volontà altrui, debitore di un peso che ben poco gli appartiene.

Secondo l’annuale classifica stilata dal Forum Economico Mondiale, la competitività di uno Stato è data “dall’insieme delle istituzioni, delle politiche e dei fattori che ne determinano il livello di produttività: in tutto ciò confluiscono moltissimi fenomeni, dal livello di corruzione che mira a rendere ancora più scarsa l’efficienza della politica e della giustizia (vedi Mafia Capitale), alle infrastrutture (oggi sempre meno mantenute per mancanza di fondi o quasi sempre incomplete grazie alla speculazione legata agli appalti), fino alla sanità e all’istruzione (che Renzi vuole aprire ai privati grazie alla Riforma della ‘buona scuola’). Ma parlare di competitività significa paragonare due o più contesti in concorrenza, realtà che si presumono partire dagli stessi livelli. E’ davvero così?

La globalizzazione selvaggia, il mercato libero, la trasformazione del capitalismo finanziario nel campo del lavoro (“Il ricatto dei mercati”, Lidia Undiemi) e delle imprese (outsourcing, privatizzazioni), hanno spinto l’Unione Europea a creare e presentare (dietro una bella copertina, è evidente) un nuovo dizionario “politically correct” da consultare ogni qual volta risulti utile giustificare politiche di austerità lacrime e sangue dietro il falso mito della flessibilità o, ancora peggio, della competitività. In poche parole, usando lo stesso elegante metodo di chi esporta democrazia dietro un finto interventismo umanitario col solo scopo di conquistare e sfruttare le risorse di un determinato Stato. Tutto ciò risponde all’esigenza di plasmare l’opinione pubblica con ideologie e falsi miti al fine di controllare le masse, dirigerle dove il potere vuole, costringerle a farsi la guerra l’una contro l’altra senza più bisogno di missili e cannoni ma grazie all’illusione della stessa democrazia, della psicologia del consenso, della steganocrazia (da stèganos, copertura). Secondo Marco Della Luna, che nel libro “EuroSchiavi” spiega bene il dietro le quinte di fenomeni come il signoraggio, debito pubblico e imperialismo, il politico è il primo a sapere che la democrazia è un’illusione; il giudice è il primo a sapere che la legalità è un’illusione; l’economista è il primo a sapere che è un’illusione il mercato libero; tutti e tre sanno però che il loro prestigio e il loro potere si basano sul mantenimento di quelle illusioni.

Quella che l’ex Ministro Elsa Fornero chiamò “flessibilità in uscita”, necessaria – come si continua a ribadire – per attirare gli investimenti stranieri in Italia – altro non è che la totale abolizione di ogni diritto dei lavoratori, la subordinazione dei giovani alle logiche di mercato, la precarizzazione del lavoro che rende precaria la vita stessa. Trasformare l’efficacia di un contratto a tempo indeterminato ad un contratto completamente risolvibile (riforma articolo 18) su volontà del datore di lavoro è già una realtà. Lo scopo è quello di creare una grande massa di lavoratori (europei, dato che l’Italia si è solo adeguata in peggio) pronti ad accettare salari minimi e condizioni più assurde e indegne dettate dalle grande multinazionali, le stesse che poi sono le prime responsabili dello stato in cui versa uno dei Paesi più ricchi del mondo come l’Africa. Le stesse che poi gestiscono loschi affari con la tratta dei migranti del 21esimo secolo con la scusa della solidarietà e della fratellanza, dopo aver sottratto loro il dono più prezioso quale la loro terra. Le stesse che – e non andiamo lontano – gestiscono il debito pubblico degli Stati diffondendo allarmi sui conti pubblici mentre la Bce intima l’Italia a rientrare nei parametri di Maastricht.

Ciò che i mass media e la politica esecutrice delle istanze di Bruxelles oggi ci presentano sotto le vesti della convenienza e dell’opportunità, altro non sono che un ritorno al passato, un passo indietro al primitivo dove i più importanti diritti dell’uomo, perfino quelli definiti “inviolabili” dalla Costituzione, finiscono per essere sacrificati sull’altare del potere.