Tutti sul carro anti Euro

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di Roberta Barone

Populisti. E’ così che, tempo addietro, venivano chiamati tutti coloro i quali incominciavano a scrutare, nell’unificazione europea sotto una moneta unica, la distruzione dei popoli europei e l’impoverimento di massa. Inutile forse ricordare come quell’atteggiamento un po’ “scorretto”  e contro corrente che piano piano riusciva a scaldare le penne di illustre menti, risultasse però un fenomeno da isolare, un tabù di cui non si doveva parlare. Bisognava insistere però, in qualsiasi modo, sull’esistenza dei fondi europei tesi a creare sviluppo e crescita, sull’importanza di un Parlamento Europeo a cui aspirare attivamente da cittadino modello ed ancora sulla grandezza di un progetto di “pace perpetua” su cui fondare le radici degli Stati Uniti d’Europa. Raggiungere l’unione politica era impossibile senza l’unione monetaria.

Da Ciampi a Prodi, da destra a sinistra, tutti d’accordo nel vedere camminare l’Italia a braccetto con la Germania fino a farla zoppicare. Nessun ribelle, nessuna voce fuori dal coro: i giornali italiani producevano titoloni ottimisti, le camere deliberavano compatte o autorizzavano ratifiche di trattati internazionali sconosciuti, mentre il posto fisso e le pensioni d’oro colmavano gli animi delle masse utili a consumare secondo quel sistema “lavorare per compare la macchina per andare a lavorare”.

E mentre la parola “democrazia” echeggiava superba nei comizi elettorali, nei più alti vertici europei si decideva come fare del “Continente più ricco del mondo una regione devastata dalla sofferenza” (cit. Marine Le Pen). Già nel 1989 la maschera della democrazia italiana incarnava le forme di un falso Referendum, quello di indirizzo, teso a consentire la consultazione dell’elettorato italiano sul conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo, eletto nello stesso anno. Anche se alle forze politiche italiane, che votarono a favore, non sfiorò nemmeno l’idea di opporsi, nessun atto accompagnò il sorgere dell’Unione Europea: una sorta di parere non vincolante dietro le vesti di un referendum inutile.

Privatizzazioni ed enormi piani di svendita del patrimonio nazionale seguirono al processo di unificazione; sanzioni e regole di bilancio sempre più severe sforavano la già sottile membrava di sovranità di un paese che, rinunciando alla Lira, aveva cambiato il vecchio col nuovo senza saper cosa trovare. Dal Trattato di Velsen con il quale veniva sancita l’esistenza di un esercito europeo legittimato ad uccidere legalmente chiunque si ribellasse a questo processo di unificazione, all’indiscutibile preminenza del diritto comunitario sulla stessa Costituzione: finivano le guerre mondiali, iniziava quella tra “poveri”.

Il 31 Luglio 2008 il parlamento italiano ratificava il Trattato di Lisbona approvando all’unanimità ciò che sarebbe stata l’ennesima cessione di sovranità. A firmare Pdl, PD, Udc, Lega Nord e Italia dei Valori. Al di là dell’azione della Lega che accettò con riserva (pur sempre accettando), tra i deputati votanti c’erano pure coloro che oggi, forse sfruttando l’ondata anti euro dovuta ad una crisi sempre più massacrante, sostengono pubblicamente discorsi così profondi da sembrare reali. Da Giorgia Meloni a Matteo Salvini e così via, i cartelli elettorali lungo le strade comuni pullulano di facce conosciute: “Siamo europei, non tedeschi”, recita il motto di un politico, oppure “Riprendersi la sovranità, riprendersi la speranza”. Mentre secondo la stessa Meloni “in Italia la moneta unica ha portato solo danni ed il nostro Paese avrebbe tutti gli interessi ad uscirne”. Come mai il dubbio sorge proprio adesso? Dopo che Mes e Fiscal Compact cancellarono le ultime briciole di sovranità?

Dinnanzi un così chiaro rovesciamento della medaglia alla fine del gioco, ci si chiede dunque se queste non siano delle vere e proprie strumentalizzazioni di una battaglia seria nella quale gli stessi responsabili ci hanno coinvolto. Battaglie in cui, troppo spesso, anni di studi di un bravo economista finiscono per diventare tristemente il cavallo di troia di una campagna elettorale.