Il Pd di Renzi non c’è più

Sharing is caring!

di Marco Damilano

C’è mancato poco, a un certo punto, che la direzione del Pd si trasformasse in un processo al Segretario. Con il governatore della Puglia Michele Emiliano pronto a indossare di nuovo la toga di pubblico ministero per la sua requisitoria:  «Matteo, sei apparso lontano, lontanissimo dalle persone, più lontano di quanto appaia il partito», addirittura.  E chissà se la direzione del Pd del 13 febbraio 2017 sarà ricordata come la prima vera discussione della segreteria di Matteo Renzi, o al contrario come l’ultima. Perché «si chiude un ciclo», l’ha ammesso anche il leader. Quello dell’unanimismo attorno al Capo, degli applausi e delle maggioranze bulgare. E, soprattutto, del Pd partito della vocazione maggioritaria, predestinato al governo, con il segretario candidato premier di diritto a norma di Statuto. Stagione conclusa: da oggi non c’è più quel Pd. In attesa di capire, domani, se ci sarà ancora il Pd. 

Matteo Renzi alla direzione nazionale Pd

Matteo Renzi alla direzione nazionale Pd

Quando alle cinque del pomeriggio è intervenuto Pier Luigi Bersani, per la prima volta dopo quasi due anni e mezzo (aveva parlato solo in occasione dell’approvazione del Jobs Act nell’ottobre 2014), le due ipotesi sono state messe sul tavolo. Congresso o scissione? Andare avanti con un congresso in tempi rapidissimi, per tornare a incoronare segretario Renzi, «il congresso del solipsismo, dell’autoreferenzialità e dell’isolamento», come l’ha definito Bersani, scelta che provocherebbe «un problema molto serio», cioè l’addio della minoranza? Oppure andare avanti con il governo Gentiloni, garantendo il proseguimento della legislatura fino alla scadenza naturale, febbraio 2018, con il probabile indebolimento della leadership renziana? 

Più andavano avanti gli interventi, Bersani, Emiliano, Enrico Rossi, Roberto Speranza, più il segretario in maglione blu sembrava afflosciarsi, stritolato tra due prospettive ugualmente deprimenti. La scissione minacciata dalle minoranze e dal presidente della Puglia in caso di primarie istantanee. E il caminetto, il balletto dei notabili, la frenata dei capicorrente, la palude, lo scirocco appiccicoso e immobile: il renzismo era nato per spazzarlo via, un vento impetuoso di aria nuova. E oggi è finito attaccato da un doppio fronte. Da parte di chi lo ha accusato di aver smarrito quell’ispirazione. E da chi, al contrario, aveva sperato di addomesticarlo, di riportarlo nell’alveo della politica di partito.

I due interventi centrali, oltre a quello di Bersani, riflettono il doppio attacco. «Nel 2013 ti ho sostenuto perché interpretavi il cambiamento. Poi ho ritrovato i miei nemici tutti dalla tua parte», accusa Emiliano. Sul versante opposto si schiera il ministro della Giustizia Andrea Orlando, suo l’intervento politicamente più importante: «Fare le primarie subito significa trasformarle nella sagra dell’anti-politica. Dopo il referendum serve una proposta forte che non ho ancora visto. E il rischio è che il Pd da soggetto di stabilizzazione del sistema si trasformi nell’epicentro dell’instabilità». La rappresentazione di un pezzo di partito deluso da Renzi che si è tramutato nel pupillo dell’establishment dopo aver predicato la rottamazione. E di un altro pezzo che, al contrario, imputa a Renzi di aver ammiccato all’antipolitica e al grillismo, durante la campagna referendaria quando invocava il taglio delle poltrone, e ora, con il tentativo di andare a votare il prima possibile, in sintonia con il Movimento 5 Stelle. Orlando resuscita i toni e i timori tipici dell’antico dirigente del Pci, cresciuto alla scuola di Giorgio Napolitano, anche oggi suo ispiratore. E mette in scena l’antica figura del pontiere: né con Renzi né con gli scissionisti. Il tessitore di una posizione centrista, mediana, che punta a disinnescare la voglia di mettersi in proprio della minoranza ma anche la tentazione solita di fare tutto da soli che muove il segretario. «I caminetti tornano in assenza di una linea politica», la prosa è vecchia, il messaggio è chiaro, Orlando non si arruola, per ora.

Mancano, per tutto il dibattito, gli interventi dei renziani. Rimasti, come dice Gianni Cuperlo, come «cetacei senza capobranco». Nessuno se non per forma difende Renzi, il renzismo, il governo dei mille giorni, il futuro smarrito. Perfino Vincenzo De Luca scandisce che «nel Sud il Pd è un corpo estraneo». Il paradosso di un leader che gode di una maggioranza schiacciante e che vincerebbe facile il congresso, ma che resta solitario, senza dirigenti in grado di sostenerne le ragioni, battagliare in una sede che non sia il classico tweet di rimbalzo della linea del Capo. Alle 19 Renzi replica e tocca ancora una volta a lui tirare le conclusioni e rimandare tutto all’assemblea del partito di fine settimana, compresa la data delle elezioni e il destino del governo Gentiloni. Si va al congresso, l’unica certezza. Il resto è in una nebulosa. L’Espresso