L’uomo, il possesso e la violenza contro le donne

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di Giuliano Guzzo

Il susseguirsi di fatti e notizie purtroppo allarmanti sta continuando, in questi giorni, ad attirare l’attenzione sul problema della violenza di coppia e, in particolare, sull’amore malato e possessivo. L’argomento è estremamente delicato e, insieme, troppo importante per non essere affrontato con serietà. Una serietà che impone, per quanto possibile, un approfondimento ragionato, non cioè emotivamente ma antropologicamente ispirato e finalizzato a comprendere le cause di quanto sta accadendo al di là di tesi false, per quanto diffuse. E dato che vi sono essenzialmente due modi per arrivare alla verità delle cose – direttamente oppure per gradi, iniziando con lo smascherare le menzogne –, direi che è utile, per meglio comprendere le dinamiche della violenza di coppia, partire proprio dalle false tesi che circolano al riguardo.

La prima è che quella secondo cui la violenza contro le donne, in particolare nel nostro Paese, sarebbe in buona sostanza frutto di una cultura patriarcale e ancora troppo poco egualitaria. Più precisamente, sarebbero gli uomini italiani ad essere sempre più violenti perché spiazzati dal cambiamento culturale in corso e impreparati – per non dire spaventati – dal nuovo ruolo della donna, non più angelo del focolare ma finalmente libera di scegliere e protagonista di un riscatto sociale. Ancorché molto diffuso e condiviso, questo pensiero è sociologicamente falso come dimostra il caso dei Paesi nord europei – certamente non cattolici, molto secolarizzati e poco patriarcali – nei quali violenza e “femminicidio” sono diffusi non allo stesso modo, bensì di più che altrove. Qualche numero e qualche dato aiuteranno, spero, a capire.

Si consideri la Svezia, autentico paradiso della “parità di genere” tanto da divenire, nel 1994, il primo Paese in assoluto con metà Parlamento composta da donne; ebbene in Svezia le violenze sessuali, dal 1975 al 2014, con cresciute in modo agghiacciante: + 1.472%. Anche considerando Danimarca e Finlandia è più elevato che altrove – dicono i dati – il rischio che una donna rimanga vittima di violenze, fisiche o verbali. Questa scomoda verità viene criticata da alcuni i quali ribattono che le donne del nord Europa sembrano subire più violenza solo perché la denunciano di più: obiezione intelligente, ma non fondata. Lo dimostrano sia i dati sulle donne uccise (non bassi) sia un nuovo studio, che ha messo in luce come la percentuale di donne che denuncia violenze in Danimarca, Finlandia e Svezia sia inferiore alla media europea (cfr. Social Science & Medicine, 2016).

La cultura patriarcale e la tradizione cattolica possono dunque lasciare il banco degli imputati, essendo inadeguati a spiegare la diffusione della violenza di coppia. E debbono lasciar il banco degli imputati pure famiglia e matrimonio. Una seconda tesi da smascherare, infatti, è quella individua la famiglia come il posto più pericoloso per una donna, che da sposata finirebbe nelle mani del marito violento senza via di scampo. Falso: i tassi di violenza domestica nelle convivenze – anche se è politicamente scorretto dirlo, dopo decenni di demonizzazione della vita matrimoniale – sono più elevati di quelli nei matrimoni (cfr. BMC Public Health, 2011; Intimate Violence in Families, 1997). Non solo: come conferma anche l’Istat, le donne coniugate sono, fra tutte, le meno esposte al rischio di subire violenza (6,5%), superate solo dalle vedove (4,0%), forse perché in genere queste sono più avanti con gli anni e con meno vita sociale.

La terza tesi da smascherare – assolti la cultura tradizionale e cattolica, così come la famiglia, dall’accusa d’incentivare la violenza contro le donne – è quella secondo cui l’uomo che maltratta o arriva ad uccidere la donna è quello possessivo. La tesi, in questo caso, è errata perché parziale; ed è parziale sia perché addossa al solo maschio la responsabilità dalla violenza di coppia sia perché è ovvio che chi arriva a maltrattare il partner è perché lo considera come oggetto anziché come soggetto. Il punto, semmai, è un altro: cosa porta un uomo lasciato ad uccidere l’ex? Un punto di vista molto convincente, al riguardo, è quello dello psichiatra Vittorino Andreoli, che alla domanda su quale sia l’uomo che uccide la donna che gli si rifiuta o la compagna che lo lascia, anziché riscaldare la minestra della cultura patriarcale ha affermato: «L’uomo pulsionale senza freni inibitori».

Scusate, ma «l’uomo pulsionale senza freni inibitori» – più che con l’icona caricaturale del capofamiglia religioso, conservatore e manesco – non combacia col modello di cui la pubblicità e i mass-media cantano con insistenza le lodi? «L’uomo pulsionale senza freni inibitori» non è forse quello che più segue l’istinto, che più coglie l’attimo e che antepone sistematicamente il “cuore” al cervello? Il vero problema, insomma, non sarà quello dell’antropologia edonistica, che credendo di liberare l’uomo da vincoli religiosi e morali sta finendo con de-umanizzarlo, rendendolo appunto «pulsionale senza freni inibitori»? Sono domande scomodissime se non altro perché, anziché chiamare in causa una non meglio precisata cultura del passato – di cui dovremmo sbarazzarci, secondo alcuni – mette nel mirino quella attuale e dominante; e c’è da giurare che, proprio per questo, molti le eviteranno.

Eppure è davvero difficile levarsi dalla testa che sia proprio il modello «pulsionale senza freni inibitori» – e quindi potenzialmente fuori controllo – il vero mostro, quello che alza le mani e talvolta uccide perché non conosce anzi odia ritenendola moraleggiante il concetto del limite, perché tiranneggiato dal suo Ego, perché posseduto dall’idea di meritarsi tutto senza doversi sudare nulla. Saremo in grado, prima d’iniziare come società, come comunità e come cittadini un nuovo percorso educativo, di raccontarci questa verità? Riusciremo ad ammettere cioè che il futuro che stiamo costruendo, così come lo stiamo costruendo, è esso stesso parte del problema, oppure continueremo – optando per la scelta più semplice – ad attribuire ogni responsabilità del disordine del nostro tempo alla cultura di coloro che ci hanno preceduto? Penso che molto, se non tutto, dipenda dalle nostre risposte a queste domande.