Quando l’America fu razzista (più della Germania di Hitler)

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di Giuliano Guzzo

La storia anche recente è letteralmente disseminata di eventi la cui narrazione non solo è sconfinata nel mito, ma pure nella menzogna; il che è doppiamente sorprendente dal momento che più un episodio passato è temporalmente prossimo a noi, più aumentano – per ovvie ragioni – le possibilità di verifica e dunque dovrebbe scemare il pericolo di falsificazione. Eppure non sempre è così, come prova per esempio il mito dell’Olimpiade di Berlino 1936 dove, dinnanzi allo strapotere del leggendario Jesse Owens (1913-1980), che si mise al collo qualcosa come quattro medaglie d’oro in appena sette giorni – 100 metri (3 agosto), salto in lungo (4 agosto), 200 metri (5 agosto) e staffetta 4×100 (9 agosto) -, si narra che Adolf Hitler (1889-1945), irritato da tanta supremazia atletica da parte di un uomo di colore, disertò la cerimonia di premiazione all’Olympiastadion.

La realtà – come giornalisti e storici anche italiani si sono, spesso inascoltati, soffermati a sottolineare – fu però ben diversa e il solo ad umiliare Owens fu Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), che negò all’atleta l’incontro privato cui ogni yankee contraddistintosi nello sport aveva diritto alla Casa Bianca. Quanto ad Hitler, per dirla con Vittorio Messori, «l’accusa di non avergli stretto la mano è strampalata, visto che il cerimoniale non lo prevedeva per alcun atleta. Ha scritto testualmente Owens in quella sua biografia […]: «Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il Cancelliere tedesco mi fissò, si alzò in piedi e mi salutò agitando la mano. lo feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un’ostilità che non ci fu affatto» (Il Timone, 2/2008).

A tal proposito è recentemente uscita Race, un’agiografia realizzata con la collaborazione della figlia Marlene Owens Rankin che dovrebbe offrire la definitiva verità storica sulla vita di quello che è considerato, da molti, il più grande atleta della storia. Non c’è quindi da rallegrarsi che possa essere Hollywood, una volta per tutte, a sfatare la leggenda di Hitler imbufalito, nel 1936, all’Olympiastadion, con Owens che – come detto – fu evitato solo dal Presidente degli Stati Uniti. D’altra parte, non fu la prima volta, anche se molti lo ignorano, che quella che è a tutt’oggi considerata ed ammirata come la più grande democrazia del mondo diede il cattivo esempio, per usare un eufemismo.

Correva infatti l’anno 1933 quando la Germania di Hitler adottò leggi che autorizzavano la sterilizzazione e l’aborto obbligatorio; ebbene, in questa corsa verso l’abisso era già anticipata addirittura da ben ventotto Stati americani, dall’Indiana (1907) all’Oklahoma (1931). Questo cosa significa? Che la dittatura nazionalsocialista in realtà non fu forse così crudele e spietata come si è soliti immaginarla? Certo che no. La lezione della storia è più sottile e mira a ricordarci un aspetto molto spesso dimenticato, vale a dire che il celebrato sistema democratico – indubbiamente il meno imperfetto in assoluto, sotto diversi punti di vista – non rappresenta, di per sé, alcuna garanzia non solo nei confronti di sbavature ed errori in fondo possibili in ogni forma di governo, ma neppure per i diritti umani, che esigono una sorveglianza ulteriore a quella di una Carta Costituzionale o di un’Alta Corte.

Tutto ciò dovrebbe quindi animare in tutti – o almeno, auspicabilmente, in molti – più attenzione a quello che accade pure oggi su temi quali l’aborto, la fecondazione in vitro o l’utero in affitto. Perché affidarsi, reputandolo a priori tollerabile, al lavoro del Legislatore o fidarsi ciecamente dell’interpretazione della Consulta su questa o quella legge – come se i criteri di giustizia e quelli di compatibilità costituzionale fossero equivalenti e intercambiabili – significa non aver compreso la lezione, in questo caso molto amara, della storia. Così come ironizzare sulle bufale che circolano su internet e poi dare credito preventivo a quanto scrivono i giornalisti – che furono i primi artefici della menzogna di Adolf Hitler contro Owens all’Olimpiade di Berlino 1936 – solo perché hanno spazio in testate considerate autorevoli, vuol dire abbandonare quel vecchio ma indispensabile arnese che è lo spirito critico, così candidandoci – osserverebbe Hannah Arendt (1906 –1975) – quali complici di nuovi totalitarismi.