Torniamo a Strapaese con “Il Bestiario degli Italiani” – di V. Musumeci

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unnamed (6)Che tra dire e il fare ci sia il mare di mezzo – vecchio detto che sa di profezia, pensando alle nostre generazioni immobili e indolenti, innamorate delle idee e sconsolate dai fatti – è opinione comune e diffusa sebbene all’opinione, in genere, non corrisponda alcuna azione. Tanto per fare un esempio, nelle ultime settimane di campagna elettorale i talk show ci hanno asfissiato più vilmente del solito e in modo ancora più inopportuno: eppure, nonostante tutti dicano di disprezzarne la vuotezza – la critica, il pubblico, persino i conduttori –, bovinamente si continua a guardarli. Che speranza può avere un Paese così intrinsecamente restio a coniugare il pensiero e l’azione concreta (ovvero, per seguire l’esempio, non guardare i talk show?)

Se il Paese ha poche speranze, dicono un gruppo di ragazzi di vent’anni, i fondatori del giornale online L’Intellettuale Dissidente, forse occorre ripescare dalla storia del giornalismo italiano e dalla letteratura qualche concetto un po’ polveroso, sommerso dai detriti di un modernismo decadente e poco romantico, qualche definizione acconcia coniata quando alle parole soleva darsi il loro significato, tanto da permettersi il lusso di inventarne di nuove: forse bisogna guardare a Strapaese, il patriottismo maccariano e longanesiano fattosi carta e storia in riviste gloriose come Il Selvaggio e L’Italiano. Per guardare all’Italia vera, alla nobiltà sepolta e dimenticata, «profonda, popolare, contadina, anarchica, conservatrice, campanilista, medievale, rurale, anticonformista, oziosa, artigiana». Sono le parole con cui saluta la nascita de Il Bestiario degli Italiani, rivista promossa da L’Intellettuale Dissidente e dalla casa editrice Circolo Proudhon, il suo direttore Andrea Chinappi. Che spiega anche il titolo: « Perché Il Bestiario? Nel medioevo, il bestiario indicava una particolare categoria di opere didattiche che descrivevano la natura di animali, reali e immaginari, da cui trarre insegnamenti morali e religiosi. La rivista il Bestiario degli italiani, vuole, oggi, descrivere la natura di questo popolo, di questo variopinto catalogo di tipi umani, unico perché italiano. Bestie dai natali mitici, tradizionalisti e anti-burocratici, grotteschi nell’essere al passo con i tempi, eccezionali nell’essere d’altri tempi. […] In questa nuova rivista, ripercorreremo il primo Novecento italiano, dando vita, nuovamente, al movimento culturale e letterario “Strapaese” sviluppatosi negli anni Venti, e attivo su riviste quali “Il Selvaggio” di Mino Maccari e “L’Italiano” di Leo Longanesi. Nel solco di questo filone culturale caratterizzato non solo da Maccari e da Longanesi, ma anche da Prezzolini, Papini, Malaparte, Palazzeschi, Soffici e altri – poi ripreso a suo modo dai Parise, i Pasolini e i Flaiano».

Obbiettivo evidentemente non semplice, ma all’altezza di una comunità, quella de L’Intellettuale Dissidente, che in pochi anni è riuscita a ritagliarsi uno spazio di intervento e di ascolto nel panorama culturale italiano, posizionandosi sempre controvento. Presentato al Salone del Libro di Torino, il primo numero del Bestiario ospita interventi, tra gli altri, di Angelo Crespi, Fulvio Abbate, Stenio Solinas, Alberto Franco, Ala Marinetti e Luca Giannelli, oltre che dei fondatori dell’Intellettuale Dissidente, Sebastiano Caputo e Lorenzo Vitelli. Dice Caputo, ideatore della rivista: «La storia è ciclica diceva qualcuno. Giovanni Papini infatti fondò nel 1903, assieme a Giuseppe Prezzolini, la rivista letteraria Il Leonardo. Avevano rispettivamente ventitre e ventidue anni.  L’Italiano iniziò le sue pubblicazioni ai primi del 1926 quando Leo Longanesi aveva appena compiuto ventuno anni. Mino Maccari invece diede alle stampe il primo numero de Il Selvaggio all’età di ventotto anni e Curzio Malaparte, anche lui giovanissimo, fondò nel 1921 una rivista quindicinale, intitolata Oceanica, che ebbe vita breve (quattro numeri) a dispetto delle sue ambizioni abnormi. Solo cinque tra i più grandi scrittori italiani del Novecento iniziarono le loro attività editoriali poco più che ventenni. In questo filone culturale, non solo per l’età, si iscrive Il Bestiario degli Italiani, la prima rivista strapaesana del nuovo millennio, come recita il manifesto nella schermata del sito (www.ilbestiariorivista.it). Contro finti intellettuali, startuppari, esterofili, benpensanti, civilizzati, democratici, perbenisti, chierici, moralisti, moderati, cosmopoliti, tutti sradicati e accampati nel mondo globalizzato».

Non c’è pagina che non citi almeno una volta Maccari o Prezzolini, non vi è illustrazione che non riporti alla mente quell’arbiter elegantiarum dei suoi tempi che fu, senza volerlo essere, Leo Longanesi. Comunque la si pensi, di là delle facili accuse di coinvolgimento politico o di nostalgie pruriginose, alla corte di quei maestri si formò la cultura italiana di tutto il Novecento fino ai nostri anni Duemila, se è vero che si sente oggi la necessità di tornare a Strapaese con il Bestiario. Un mondo, un costume, una cultura stanno scomparendo, sotto l’attacco continuativo e spietato del modernismo, del relativismo, dell’esterofilia. La reazione, il pensiero che – finalmente! – si fa azione, il dire che supera il mare giungendo finalmente a concretezza passa oggi dalle trentadue pagine del Bestiario.

Scrive bene Lorenzo Vitelli nell’articolo a pagina sei del primo numero, La sopravvivenza degli italiani alla prova della storia: «Siamo tutti uniti sotto lo stendardo longanesiano che recita “tengo famiglia”; siamo associati dall’idea che la salute venga prima di tutto; siamo provinciali, attaccati al luogo di nascita che tramanda riti ancestrali. Abbiamo una visione rurale, superstiziosa, irrazionale della vita per cui viviamo alla giornata tirando a campare. Tuttavia questa eraclitea e armonica unità delle contraddizioni cede il passo ad un movimento torrenziale che incalza per fare della nostra penisola una porcheria nordica e grigia, appiattendo nel brodo globale ogni diversità all’Uno, all’identico». Prosegue poi elencando taluni piedi di porco coi quali si sta forzando la serratura della nostra coscienza agricola e felice: «I film, i gadget, i poster, i flipper, i juke-box, poi laplaystation, gli smartphone, il gel per capelli, le scarpe da ginnastica, le tute e le t-shirt». E’ una delle pagine più attente del numero, accanto a più sonnacchiose e liete divagazione sulle radici arabe della Sicilia, su Curzio Malaparte, su Giovanni Papini, su Walter Veltroni (e che c’entra? Chiedetelo a Fulvio Abbate se non vi manda al diavolo), sul patriottismo, sul culturame e su molto altro ancora.

Un progetto ambizioso che trascorre attraverso colonne eleganti su pochi fogli di carta spessa color crema. Tutto rigorosamente illustrato, senza cedere alla tentazione di ammodernare con qualche fotografia. Massimo concesso, il fumetto finale disegnato da Alessandro Breccia. Il Bestiario è appunto, secondo la definizione di Chinappi, un catalogo di un’Italia fantastica capace di unire nelle sue fila futurismi arrembanti e paciosa letteratura, quella che si deve davvero temere, solida e formativa eppure vaga e interpretabile. Così accomunati dal senso della fatalità, le genti italiane sono selezionate, esaminate e ricatalogate al posto dell’unicorno e del centauro, operazione complessa ma necessaria per non disperdersi. Avrebbero potuto chiamarlo L’Inventario, ma a Strapaese suonava male. E strapaesana questa rivista lo è costitutivamente, evadere da quest’evasione non si può. Bando alla metafisica.

Lo disse bene Longanesi scrivendo del nostro cinema, in quei tempi non sospetti che erano gli anni Trenta, sulle pagine de L’Italiano: « Non credo che in Italia occorra servirsi di scenografi per costruire un film. Noi dovremmo mettere assieme pellicole quanto mai semplici e povere nella messinscena, pellicole senza artifizi, girate quanto più si può dal vero. È appunto la verità che fa difetto ai nostri film. Bisogna gettarsi alla strada, portare le macchine da presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni. Basterebbe uscire in strada, fermarsi in un punto qualsiasi e osservare quel che accade durante mezz’ora, con occhi attenti e senza preconcetti di stile, per fare un film italiano naturale e logico». Queste parole così esatte, trasportate alla condizione presente del nostro paese, alla dittatura della scenografia globalizzata e mondialista, al difetto di verità che ci fa detestare più che mai gli ambasciatori locali dei proprietari del mondo, rendono l’idea di quanto necessario sia tornare all’Italia profonda popolare contadina svelata da Chinappi nel suo editoriale. Le fortune del progetto (la rivista è trimestrale) saranno stabilite nel tempo, ma l’insorgere di una reazione all’andazzo generale è fatto di per sé positivo. Nuove riviste sorgono, nuovi giornali aprono, a portare avanti idee disparate, a volte disperate, sensate e insensate, ma necessarie in quanto presenti. Non è così facile, lo diciamo anche a chi ha gioito del ritiro del nostro giornale dalle edicole, fare tacere una voce come quella dell’autentica Italia. Diceva ancora Longanesi: « Noi [italiani] siamo il cuore d’Europa, ed il cuore non sarà mai né il braccio né la testa: ecco la nostra grandezza e la nostra miseria».

Valerio Musumeci

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