Come funziona l’impeachment: ultima parola alla Consulta allargata

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Sergio Mattarella, presidente della Repubblica

Sergio Mattarella, presidente della Repubblica

Cos’è l’impeachment

L’articolo della Costituzione che disciplina la messa in stato d’accusa del capo dello Stato è l’articolo 90. Nel testo si legge che il presidente non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione. In tali casi è messo sotto stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune a maggioranza assoluta dei suoi componenti. Il punto però è che le Camere devono votare un testo in cui si chiariscono le ragioni per cui Sergio Mattarella può essere imputato di attentato alla Carta visto che è escluso l’alto tradimento. I 5 Stelle, che sono quelli che hanno lanciato l’idea insieme a Giorgia Meloni, devono quindi trovare le ragioni costituzionali per circostanziare le accuse.

La Corte costituzionale

Se quel testo viene votato, l’ultima parola spetta alla Corte Costituzionale come prevedono gli articoli 134 e 135. Nel caso di giudizio sul capo dello Stato, oltre i componenti ordinari della Consulta, il collegio viene integrato con 16 membri tratti a sorte da un elenco di cittadini con i requisiti di eleggibilità a senatore che il Parlamento compila ogni 9 anni mediante un’elezione con le stesse modalità stabilite per i giudici ordinari.

Se si va al voto 

I 5 Stelle dovranno decidere se andare al voto subito oppure fare lo stato di accusa a Sergio Mattarella. Perché se chiedono le urne e quindi lo scioglimento delle Camere, è chiaro che questo è incompatibile con l’impeachment. Di fronte a una tale accusa, il capo dello Stato non può sciogliere. E soprattutto la loro iniziativa rischia di non avere i voti necessari visto che Salvini (finora) non l’ha appoggiata.

I precedenti

Non si è mai verificata la messa in stato d’accusa ma ne fu investito Giovanni Leone che però si dimise prima. Accadde anche a Francesco Cossiga ma non ebbe luogo perché lasciò il Quirinale due mesi prima della scadenza del settennato. E fu “minacciato” anche Oscar Luigi Scalfaro senza alcun seguito concreto.