Vivendi-Mediaset. La storia 
dell’ultima 
guerra di Berlusconi

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Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia

Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia

di Gianfrancesco Turano

Sul palcoscenico di questo “Natale in casa Berlusconi” il presepio è un campo di battaglia. I Re Magi venuti da paesi lontani, il bretone Vincent Bolloré di Vivendi, il mediatore tunisino Tarak ben Ammar e l’australiano Rupert Murdoch di Sky, portano doni di dubbio gusto alla grotta di Arcore. E Silvio si trova sotto assedio proprio quando iniziava a rivedere un raggio di luce in fondo alla galleria dell’emarginazione politica e dei problemi di salute.

Gli amici per resistere al raid dei francesi di Vivendi, che li si conti o li si pesi, si sono rarefatti. Fra questi, c’è il neopremier Paolo Gentiloni, che già da ministro delle Comunicazioni con Romano Prodi (2006-2008) firmò una riforma del settore tv non troppo dura con le reti Fininvest. C’è l’Agcom, tradizionale vaso di coccio deciso a sostenere la strategicità dell’asset Barbara D’Urso nel quadro dell’imprenditoria nazionale. Ci sarà la Consob a chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati. E contro Bolloré è stato chiamato in soccorso il Maligno in persona, la Procura di Milano. Forse non basterà.

La tempra dell’uomo non si discute. Ma è messa a dura prova in due delle sue caratteristiche principali, entrambe irrazionali: il sentimento di essere immortale e la paura di finire in povertà. Gli attacchi esterni esaltano questi poli in contraddizione come non accadeva da oltre vent’anni. Per trovare un momento altrettanto critico nella vicenda del Cavaliere bisogna risalire al 1993, con la Fininvest oppressa da 4 mila miliardi di lire di debiti e la magistratura alle porte. Berlusconi uscì dall’impasse con la doppia mossa della fondazione di Forza Italia e della realizzazione del progetto Wave, la quotazione di Mediaset. Quasi un quarto di secolo dopo, il pericolo arriva proprio dalle tv. Le scelte di questi giorni festivi segneranno il futuro del gruppo del Biscione e degli eredi di un impero creato dal nulla.

La caduta di Piersilvio

Riunioni su riunioni hanno scandito la settimana prenatalizia nei tre poli di via Paleocapa a Milano, la sede storica di Fininvest, negli uffici di Mediaset a Cologno Monzese e ad Arcore, dove il patriarca riunisce i figli.

La scalata di Bolloré ha portato in luce il problema del passaggio di mano dal fondatore ai cinque eredi. Voci interessate riportano di conflitti fra i due tronconi rappresentati da Marina e Piersilvio, da una parte, e dai figli del matrimonio con Veronica Lario, Barbara, Eleonora e Luigi, dall’altra.

La realtà è che decide solo il capo, quel signore che ha tuttora il 61 per cento della holding Fininvest. I ragazzi si allineano. Il dissenso non è previsto ed è comunque ininfluente. È vero che i tre figli minori si interessano poco o nulla a Mediaset e che i due figli maggiori vorrebbero disfarsi quanto prima del Milan, attribuito a Barbara.
Ma il problema vero, che nessuno in famiglia confesserebbe, è la caduta di Piersilvio. A differenza di Marina, che presiede Mondadori-Rizzoli ma ha affidato la gestione a un manager esterno, Ernesto Mauri, il secondogenito di Silvio è vicepresidente e amministratore delegato delle reti tv.

Le scelte strategiche portano la sua firma. È stato lui a partire per una guerra che non poteva vincere contro Sky a colpi di dumping tariffario su un mercato di abbonati pay irremovibile a quota 5 milioni complessivi. È stato lui che ha cacciato Mediaset nel pasticcio dei diritti della serie A, sancito da una multa dell’Antitrust da 51 milioni di euro annullata dal Tar prima di Natale con ricorso in appello dell’authority al Consiglio di Stato.

È stato lui a buttare via 700 milioni di euro per strappare a Murdoch la Uefa Champions League con risultati che hanno dissestato i conti e con una politica di programmazione fallimentare fra chiaro e criptato. Né è stato troppo aiutato da un altro esponente della seconda generazione, il direttore dei contenuti di Premium Yves Confalonieri, figlio di Fedele, presidente di Mediaset, melomane, francofilo e sostenitore della linea dura nello scontro con il raider venuto dalla Bretagna. A Confalonieri senior, amico di gioventù di Silvio, non è sfuggita la perfidia con la quale Arnaud de Puyfontaine, braccio destro di Bolloré in Vivendi, ha dichiarato al Corriere della Sera di avere sempre piacere a incontrare Piersilvio.

Anche se va di moda la tesi che Mediaset è un’azienda in declino, le cifre di bilancio dicono che, al netto della catastrofe Premium, le tv del Biscione non vanno poi così male, pur se incassano meno rispetto ai tempi d’oro. Il fallimento di Piersilvio si aggiunge a quello di Barbara, l’altro rampollo che ha chiesto e ottenuto dal padre un ruolo operativo in un’azienda di casa, l’Ac Milan. La cogestione con Adriano Galliani è stata quanto meno problematica e i 200 milioni di euro arrivati dai fantomatici acquirenti cinesi non hanno neppure sfiorato le casse del club rossonero e, per ora, nemmeno quelle della holding. In compenso, una cifra almeno pari alle due rate bonificate dalla Cina è stata investita per tamponare con acquisti sul mercato la scalata a Mediaset.

La scalata in tre scenari

Appena i francesi hanno dichiarato il raid, anche se il rastrellamento è iniziato mesi fa, commentatori e insider hanno prodotto vari scenari interpretativi.

Il dato di cronaca è che Fininvest ha tenuto dal primo momento una posizione molto chiara. Secondo la capogruppo berlusconiana, Vivendi ha disatteso un contratto valido per l’acquisto di Premium firmato la scorsa primavera. Il venditore Mediaset continua a ritenere l’accordo in vigore e ha continuato a notificare a Vivendi ogni suo atto di gestione come se la partnership fosse andata a buon fine. Quando ha annunciato l’intenzione di non finalizzare l’acquisto di Premium («un Macdonald, non un ristorante a tre stelle», secondo de Puyfontaine), il finanziere bretone ha fatto crollare il corso borsistico di Mediaset per comprare a prezzi di saldo e in particolare ha violato l’impegno scritto a non rastrellare titoli Mediaset oltre il 5 per cento nel biennio. Una clausola, sia detto en passant, che dimostra le cautele berlusconiane verso il modus operandi di Bolloré.

L’ipotesi più fantasiosa è che Berlusconi abbia concertato col supposto nemico la scalata che gli sta rivalutando il titolo. Ma le sue plusvalenze sono virtuali. Sono invece reali i soldi spesi per contrastare Bolloré comprando sul mercato ed è reale l’esposto per turbativa di mercato presentato da Niccolò Ghedini alla Procura di Milano dopo la causa civile per il mancato adempimento dell’acquisto di Premium.

La seconda ipotesi, più attendibile, è che ci sia un gioco al massacro con Berlusconi preso in mezzo fra Bolloré e gli arcirivali di Sky, unici possibili acquirenti di Premium purché a un costo vicino allo zero. Questa opzione mira all’espulsione definitiva dell’inventore di Canale 5 dal mondo che gli ha consegnato il successo. Negli scorsi anni, la cessione di tutta Mediaset a Sky è emersa più e più volte ma più come strumento per creare attenzione mediatica che come negoziato reale. Impegnati dall’incorporazione della Fox per 14 miliardi, gli uomini di Murdoch non perdono di vista il campo di battaglia, pronti a intervenire.

La terza ipotesi, accreditata in via informale anche da fonti del Biscione, è che il muro contro muro annunciato da Confalonieri e ribadito dall’aggressività di Bolloré sul mercato sia il passo d’inizio di un’inevitabile trattativa a 360 gradi per risolvere con una transazione la grana Premium senza che una delle due parti in causa perda la faccia. In fondo, molti fra Cologno, Milano e Arcore confidano o sperano in un armistizio. Ma, si è detto, solo uno decide.
L’epilogo pacifico ha una controindicazione molto seria che va al di là del gioco Opa-contro Opa. Ormai su Mediaset indaga la magistratura penale. A differenza della causa civile per danni contro Vivendi, in questo caso Fininvest non può più dire, ammesso che lo voglia, “abbiamo scherzato”. Né si può dimenticare che la Procura milanese non è proprio nella lista dei migliori amici del Biscione. L’ultima richiesta di rinvio a giudizio contro Silvio Berlusconi è datata 15 dicembre, due giorni dopo che Ghedini ha denunciato l’aggiotaggio su Mediaset, e riguarda la presunta corruzione dei testimoni che va sotto il nome di processo Ruby ter.

L’indagine penale andrà avanti comunque. Certo non sarà breve. Potrebbe chiudersi con i giochi societari già decisi e comunque in un nulla di fatto. Bolloré è tutto fuorché un pivellino e la Consob o la Guardia di finanza faticheranno a districarsi fra opzioni put/call, derivati, futures e portage di investitori amici che forse già garantiscono al raider bretone una quota ben superiore al 30 per cento.

Tre ruoli in commedia per Tarak

Sky, Mediaset e Vivendi hanno, o hanno avuto per molti anni, un consulente in comune. Si chiama Tarak ben Ammar, storico consigliere di Mediaset all’indomani della quotazione per conto del principe al Walid bin Talal al Saud. Il suo ruolo fra le tre sponde si è sempre più spostato verso la Francia, dove il produttore cinetelevisivo ha la sua residenza principale. Rispetto a Sky, dove sostengono di non avere più a che fare con Ben Ammar da almeno sei anni, e a una Fininvest declinante, Bolloré ha un profilo molto più promettente per Ben Ammar. Si è visto a novembre 2015 nella vicenda della conversione delle azioni di risparmio Telecom, proposta dall’ad del tempo Marco Patuano. Vivendi, rappresentata in consiglio di amministrazione proprio da Ben Ammar, ha lasciato trapelare di essere favorevole a un’operazione che pure avrebbe diluito la partecipazione dei francesi nel gruppo delle tlc. Il via libera sulla conversione è stato però subordinato all’allargamento del cda a vantaggio degli uomini di Vivendi, azionista di riferimento con il 23,9 per cento. Approvato l’ampliamento a 16, con l’inserimento fra gli altri di de Puyfontaine alla vicepresidenza, i francesi hanno fatto dietrofront e hanno bocciato la conversione (dicembre 2015).

Sostituito Patuano con Flavio Cattaneo, Vivendi si è dedicata alla pratica Premium revocando il contratto il 25 luglio, quaranta giorni dopo l’operazione a cuore aperto di Berlusconi. Ad Arcore non hanno gradito la scelta di campo di Ben Ammar, che ha negato fino alla fine la discordia con Fininvest pur di tenersi il ruolo di mediatore al quale tiene molto. Ma i fatti sono eloquenti e Berlusconi non ha gradito il voltafaccia del suo consulente che, come imprenditore, ha qualche difficoltà. La holding di Ben Ammar Holland coordinator è in rosso per circa 9 milioni all’anno nel 2014 e nel 2015. A fronte di un’attività a rilento, il produttore punta molto sulla moral suasion che va dai consigli di amministrazione di Mediobanca e Telecom alle redazioni dei giornali, dove svolge da sempre un ruolo di media relator, o spin doctor. Sapere per conto di chi chiarirebbe i profili di una manovra che coinvolge a cascata tutto il mondo degli investimenti targati Bolloré, dalle Assicurazioni Generali, salite del 30 per cento in Borsa negli ultimi tre mesi, alla stessa Mediobanca dove nel 2003 proprio Ben Ammar guidò lo sbarco di Bolloré.

In quel caso, intervennero a difesa dell’italianità Mps e Capitalia. Alla fine, si arrivò a un accordo garantito da un nuovo patto di sindacato e dall’uscita dell’ad Vincenzo Maranghi.

Anche in questo caso, l’assedio non sarà indolore. Il lupo bretone è in casa. Fin da adesso Vivendi ha il potere di bloccare le operazioni straordinarie di Mediaset, di intervenire sulla gestione, di chiedere spazi in cda, di mettere naso e bocca in tutti i contratti mentre Fininvest può rafforzarsi secondo scadenze di legge acquistando un 5 per cento di azioni entro l’aprile 2017 e un altro 5 per cento entro l’aprile 2018. In quanto ai pareri dell’Agcom contro Bolloré, i francesi contano sulla catena dei ricorsi amministrativi. Tutte dilazioni di cui Berlusconi è sempre stato maestro e che ora giocano contro di lui in un durissimo finale di partita a eliminazione diretta. L’Espresso