Fede, politica e strade diverse

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di Claudia Cirami

Quando il giovane beato Alberto Marvelli morì, nel 1946, stava tornando in bicicletta da un comizio elettorale. Nel primo governo libero della sua città, Rimini, era stato assessore. Poi si era iscritto alla Democrazia Cristiana, sperando di poter dare il suo contributo ad una politica che, dopo la guerra, aveva bisogno di ripartire, con l’aiuto di tutti, anche dei cattolici. Lungi dal considerare la sua breve carriera politica come un elemento da sottovalutare o, magari, da riprovare, San Giovanni Paolo II, nell’omelia per la beatificazione di Marvelli, avvenuta nel 2004, disse di lui: «Alberto aveva fatto dell’Eucaristia quotidiana il centro della sua vita. Nella preghiera cercava ispirazione anche per l’impegno politico, convinto della necessità di vivere pienamente da figli di Dio nella storia, per fare di questa una storia di salvezza».

Nonostante simili esempi, una certa diffidenza nei confronti dell’impegno politico del cattolico è humus comune a molti, anche se vivono intensamente la loro fede e sono attivamente impegnati nelle parrocchie. Probabilmente, questo atteggiamento ha origine inconsapevole nel “non expedit” di Pio IX (siamo negli anni seguenti alla Breccia di Porta Pia, avvenuta nel 1870), necessario come fatto storico, perché il Papa sentiva che, in quel determinato momento, non c’era vera possibilità di dialogo con il neonato Stato Italiano. La politica nazionale all’epoca si ispirava teoricamente al principio cavouriano “libera Chiesa in libero Stato”, ma, nei fatti, la libertà della Chiesa era apparente, visto che garante di questa voleva essere lo Stato. In quel momento, il “non expedit” (il divieto per i cattolici di partecipare alle elezioni politiche) fu perciò quasi dovuto. Sembra però che parte del cattolicesimo non si sia ancora liberato da quella mentalità che si è venuta a creare: l’idea che per un cattolico “non conviene” avere a che fare con la politica. Così, se il non expedit – nato in una precisa contingenza storica, fortemente segnata da un anticlericalismo che suffragava leggi volontariamente tese ad assestare colpi letali al cattolicesimo italiano – fu poi accantonato, sembra essere più complicato superare quella mentalità che si è diffusa a partire da questo.

Pare essere un altro frutto di questa mentalità anche la degenerazione di una politica cattolica di nome, ma tradita nei fatti, con esponenti che si dichiarano cattolici ma votano, legiferano, si schierano sicut Deus non daretur, come se si potesse mettere tranquillamente da parte il Vangelo o, per lo meno, le parti di questo che più sono in contrasto con le visioni mondane. A prima vista, si potrebbe concludere che un politico che disattende i dettami del Magistero viva un debole cammino di fede e che l’attrazione per una poltrona possa essere più forte di qualsiasi richiamo dottrinale. Naturalmente è possibile. Tuttavia, c’è da chiedersi quanto, anche in questo caso, non si imponga, a livello psicologico, questa dicotomia creatasi tra politica e fede, per la quale – potrebbe essere il ragionamento – «se mi impegno in politica, devo necessariamente “preservare” il me credente, relegando la parte più pura nel privato, per potermi gettare nell’agone politico come se non fossi un cattolico», finendo, in effetti, per non sembrarlo affatto.

Ovviamente anche l’esperienza, a lungo andare infelice, di un partito d’ispirazione cattolica quale la Democrazia Cristiana, ha contribuito a creare una mentalità per cui la politica – che per Paolo VI era la più alta forma di carità – non possa essere realmente “roba da cattolici”. C’è da dire, però, come ha sottolineato uno storico della Chiesa, che i membri della DC, nel corso degli anni, furono cooptati più dalle segreterie di partito che dalle comunità ecclesiali, fatto che mutò, nel tempo, la fisionomia del partito. Eppure, la riflessione che viene fuori in questi anni, nella Chiesa italiana, seppur priva ancora dell’attenzione che meriterebbe, è di ben altro tenore rispetto alla dicotomia da cui ancora il mondo cattolico non riesce a liberarsi.

Secondo Emilio Alberich, autore del fortunato manuale di catechetica “La Catechesi oggi” sono quattro gli ambiti che caratterizzano «il dinamismo ideale dell’agire ecclesiale». Insieme ai tre ambiti dell’azione missionaria (rivolta a non credenti e indifferenti religiosi), dell’azione catecumenale (rivolta a chi si avvicina alla fede per la prima volta o desidera ritornarvi), dell’azione pastorale (rivolta alla comunità ecclesiale), esiste un ulteriore ambito, che riguarda la nostra riflessione: quello della “presenza e azione nel mondo”. Scrive Alberich: «Merita attenzione particolare, anche perché spesso trascurato, questo normale sbocco dell’agire ecclesiale nelle diverse forme di testimonianza evangelica nella società: promozione umana, azione sociale e politica, azione educativa e culturale, promozione della pace, impegno ecologico. Sono ambiti di presenza dove la Chiesa è chiamata ad uscire dal suo recinto interno per mettersi decisamente al servizio del Regno di Dio nel mondo».

Dalla politica all’impegno ecologico, dall’azione culturale alla promozione della pace, questi e gli altri “luoghi” diventano possibilità con cui il cristiano non tradisce il suo cammino di fede, ma, semmai, lo esplicita secondo modalità tempi e spazi diversi da quelli tradizionali di evangelizzazione – ad extra e ad intra – ma che, nondimeno, sono particolarmente importanti. Soprattutto in contesti fortemente segnati dalla secolarizzazione o da spiritualità di matrice neopagana. La descrizione mette in evidenza due caratteristiche di questo ambito, che sono in un certo senso in contraddizione: la normalità dello sbocco (non si tratta di eccezioni), ma, al contempo, la trascuratezza con cui l’ambito viene trattato, lasciato spesso alla buona volontà di singoli, siano essi laici, soprattutto, o consacrati, la cui “presenza e azione nel mondo” viene in larga parte ignorata o sottovalutata, quando non ostacolata, nelle diocesi o parrocchie di provenienza (salvo felici eccezioni).

Dell’importanza di una “presenza e azione nel mondo” la Chiesa sembrava aver preso coscienza con il Progetto culturale. Nella Prima Proposta di lavoro, del 1997, leggiamo: «Appare allora come una tragica controtestimonianza la diffusa dissociazione tra pratica religiosa e vissuto quotidiano. Si tratta di una distanza che tende ad approfondirsi tra il credo professato e i modi collettivi di pensare e di agire, tra il messaggio a cui si afferma di aderire e lo stile e la mentalità dominanti, non solo nella società ma anche all’interno delle stesse comunità cristiane». Nonostante gli sforzi intrapresi, qualcosa, però, non ha funzionato se una certa mentalità dicotomica tra cultura e fede, tra politica e fede, tra impegno sociale e fede, etc. ancora permane.

Naturalmente è più semplice essere riconosciuto come lavoratore della vigna nel Signore se inquadrato in un “ambiente” più familiare al fedele (ad esempio, quello della catechesi per l’iniziazione cristiana). In una prospettiva di salvezza delle anime, tuttavia, chi è sicuro che uno scrittore cattolico non abbia contribuito con la sua opera all’edificazione del Regno di Dio allo stesso modo di chi per anni ha svolto catechismo in parrocchia? Lo stesso potrebbe dirsi del medico obiettore di coscienza o di chi si occupa di tutela del creato. O di chi si impegna in azioni umanitarie o del politico. Naturalmente, l’impegno, per dirsi cattolico, non deve travisare o disattendere il Catechismo della Chiesa Cattolica.

Al n. 61 di EG, il Papa scrive: «Evangelizziamo anche quando cerchiamo di affrontare le diverse sfide che possano presentarsi. A volte queste si manifestano in autentici attacchi alla libertà religiosa o in nuove situazioni di persecuzione dei cristiani, le quali, in alcuni Paesi, hanno raggiunto livelli allarmanti di odio e di violenza. In molti luoghi si tratta piuttosto di una diffusa indifferenza relativista, connessa con la disillusione e la crisi delle ideologie verificatasi come reazione a tutto ciò che appare totalitario. Ciò non danneggia solo la Chiesa, ma la vita sociale in genere». Questo testo mette in evidenza il rapporto autentico e non marginale che esiste tra l’evangelizzazione e la presenza e azione nel mondo. L’evangelizzazione non sempre può seguire i percorsi tradizionali della missione ad extra o dell’azione pastorale ad intra. Lo stesso Papa ha recentemente parlato di “persecuzioni educate” che i cristiani incontrano nei luoghi di lavoro, di cultura, nei mass media. Queste situazioni necessitano di una maggiore competenza da parte dei cristiani, di una formazione specifica che li riguarda ma anche di un più forte sostegno da parte della Chiesa a questi suoi membri che testimoniano nel mondo la fede in Gesù Cristo.

Del resto, in “Incontriamo Gesù. Orientamenti per l’annuncio e la catechesi in Italia” del 2014, al n. 67, viene sottolineato che: «l’attuale contesto di nuova evangelizzazione richiede di saper affrontare situazioni in tutto o in parte inedite». Per questo motivo, continua IG, diventa importante la «necessaria qualificazione di figure capaci di rivolgersi agli adulti in tante realtà ordinarie e straordinarie, negli ambiti politici ed amministrativi, nei media e nella cultura». Lo spazio dato a questo ambito è ancora limitato. Ciò significa che ancora la Chiesa non ha preso coscienza fino in fondo del fatto che le sfide più forti oggi non si giocano dentro le mura di una parrocchia (sebbene sarebbe sciocco negare che è proprio nella vita sacramentale della comunità ecclesiale che i fedeli trovano la forza per testimoniare nel mondo), ma in altri ambiti, dove spesso i cristiani si sentono soli e non abbastanza supportati. Perché la necessità di questa presenza e azione nel mondo?

È illuminante, in tal senso, la lettura del n. 4 della Costituzione Pastorale della Gaudium et Spes. Nonostante siano passati sessant’anni, si riferisce ad una situazione storica che presenta notevoli analogie con la nostra: «L’umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’insieme del globo. Provocati dall’intelligenza e dall’attività creativa dell’uomo, si ripercuotono sull’uomo stesso, sui suoi giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e d’agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. […] mentre l’uomo tanto largamente estende la sua potenza, non sempre riesce però a porla a suo servizio. […] Mai il genere umano ebbe a disposizione tante ricchezze, possibilità e potenza economica; e tuttavia una grande parte degli abitanti del globo è ancora tormentata dalla fame e dalla miseria, e intere moltitudini non sanno né leggere né scrivere. Mai come oggi gli uomini hanno avuto un senso così acuto della libertà, e intanto sorgono nuove forme di schiavitù sociale e psichica. E mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, violentemente viene spinto in direzioni opposte da forze che si combattono; infatti, permangono ancora gravi contrasti politici, sociali, economici, razziali e ideologici, né è venuto meno il pericolo di una guerra capace di annientare ogni cosa».

Da questa lettura si evince facilmente come, se possibile, oggi la situazione sia diventata ancora più seria: le nuove possibilità offerte dalla scienza, ancora più ardite rispetto alla situazione a cui si riferivano i Padri Conciliari; le sfide lanciate da ideologie che inquietano; l’acuirsi di conflitti di ogni tipo fanno comprendere come la presenza e azione del cristiano nel mondo sia ormai indispensabile. Una testimonianza che, oggi, non riesca a farsi carne nella cultura, nella politica, nell’educazione, etc. manterrà, con gravi conseguenze, lo iato tra fede e vita pubblica. E a chi giova? La Croce – Quotidiano