Il 2 giugno torna, come ogni anno, puntuale come un promemoria della memoria collettiva: la Festa della Repubblica, l’anniversario del referendum del 1946 con cui gli italiani — e per la prima volta anche le italiane — scelsero la forma repubblicana, archiviando una monarchia complice del Fascismo e delle guerre.
Eppure, nel 2025, questa celebrazione ha il sapore agrodolce di una Repubblica che esiste sulla carta ma si frantuma nella realtà. Si sfila ai Fori Imperiali con la mano sul cuore, ma poi si smarrisce l’essenza profonda di ciò che si dovrebbe onorare: l’unità, la Libertà, il rispetto delle Istituzioni e delle persone.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito a qualcosa di inedito e inquietante: l’aumento degli attacchi verso le più alte cariche dello Stato. La contestazione è sacrosanta in Democrazia, ma l’odio cieco e la delegittimazione sistematica sono veleno. Quando si inneggia alla violenza nei cortei, tanto per fare un esempio, si scivola in una barbarie che nulla ha a che vedere con la libertà di pensiero. È un campanello d’allarme che riguarda tutti, anche chi pensa che “tanto è solo una sparata sui social”, come l’ultimo genio che ha auspicato pubblicamente sui social la morte della figlia del presidente del Consiglio Giorgia Meloni al solo fine di lotta politica.
In questo contesto va riconosciuto che il Governo di Centrodestra ha riportato una certa autorevolezza all’Italia nello scenario internazionale. Dopo anni di governi tecnici o traballanti, Roma ha ritrovato una voce riconoscibile in Europa e nei consessi globali. Che piaccia o no, la postura fiera e determinata della premier Meloni ha ridato dignità all’Italia nei tavoli dove si decide il futuro dell’Occidente. Certo, restano le ombre — dalle fragilità economiche al nervosismo sui diritti civili — ma il protagonismo diplomatico e l’attivismo geopolitico sono segnali che il Paese è tornato ad avere un peso non più trascurabile.
Eppure non basta. La Repubblica non è solo Governo, né solo Istituzioni. È fatta anche e soprattutto di cittadini, città, quartieri, volontariato, imprese, studenti, insegnanti, madri e padri. E proprio qui si gioca la sfida più importante: ridare senso e speranza alle nuove generazioni. Troppi giovani fuggono all’estero o si rifugiano nel nichilismo. Le forze civiche, le energie sane dei territori, i talenti dispersi devono tornare a essere protagonisti di un nuovo corso, che cominci dalle piazze, dai consigli comunali, dalle scuole, dai movimenti, dalle associazioni, fino ai social che oggi informano e (dis)educano milioni di menti.
Non è più tempo di delegare. È tempo di esserci. La Repubblica si salva solo se diventa una cosa viva, partecipata, talvolta forse imperfetta ma comunque nostra. Ma soprattutto: di tutti, non solo di alcuni.
E ai giovani — quelli veri, non quelli da talk show con la camicia stirata e la citazione di Gramsci nel cassetto — un umile pensiero: se aspettate che qualcuno vi dia il permesso di cambiare le cose, la Repubblica resterà un logo. Con tanto di tricolore sbiadito, copyright dello Stato, e slogan da mettere su una T-shirt in saldo a fine stagione. Sveglia.