La stilista Elisabetta Franchi è stata condannata dal Tribunale del Lavoro di Bologna per condotta anti-sindacale e dichiarazioni discriminatorie riguardanti le donne over 40. La sua azienda, Betty Blue, è stata obbligata a cessare le sanzioni contro i lavoratori in sciopero e a partecipare a corsi di parità di genere. Tale circostanza ha ovviamente sollevato un polverone di polemiche, ma è necessario analizzare la questione da una prospettiva più ampia e meno ideologica.
È innegabile che l’imprenditoria richieda scelte difficili, spesso fraintese da chi non conosce le dinamiche aziendali. Elisabetta Franchi ha creato un’azienda di successo in un settore competitivo come la moda, e lo ha fatto garantendo una maggioranza femminile nel suo team, un dato che dimostra il suo impegno per l’occupazione delle donne. Questo è un dato incontrovertibile. Le sue dichiarazioni che ci occupano, tanto criticate ed ovviamente amplificate dai media, riflettono una realtà complessa in cui l’assenza prolungata – specie in realtà di livello superiore – di figure chiave, può minare la continuità aziendale.
Diciamocelo chiaramente: il vero problema non risiede nelle parole di Franchi, ma in un sistema statale che non offre sufficiente supporto alle donne lavoratrici. In un paese come l’Italia, dove la conciliazione tra lavoro e vita familiare è ancora un miraggio, è comprensibile che gli imprenditori cerchino di proteggere la stabilità delle loro aziende. Franchi ha semplicemente sottolineato una verità scomoda, e cioè l’assenza di politiche efficaci che permettano alle donne di non dover scegliere tra carriera e famiglia.
Chi accusa la stilista Franchi di discriminazione ignora volutamente il contesto imprenditoriale e le sfide che comporta. La sua azienda è un esempio, universalmente riconosciuto, di successo femminile; e le sue scelte, per quanto da taluni ritenute controverse, sono dettate dalla necessità di garantire continuità e prosperità all’azienda. Punirla per aver sollevato un problema reale e oggettivo risulta essere miope ed anche controproducente.
Inoltre, è ipocrita da parte di chi la critica non riconoscere che molte altre aziende, in silenzio, adottano politiche simili per le stesse ragioni. Franchi ha avuto il coraggio di parlare apertamente di queste difficoltà, rischiando di esporsi alle critiche, ma con l’obiettivo di sollevare un dibattito necessario su come migliorare le condizioni lavorative per le donne in Italia.
Infine, la sua condanna a corsi di parità di genere appare come una soluzione simbolica che non affronta il problema alla radice. È lo Stato che deve intervenire con politiche concrete di supporto alla maternità e alla conciliazione lavoro-famiglia, non demonizzare chi, tra mille difficoltà, cerca di mandare avanti un’impresa.
Elisabetta Franchi non è una discriminatrice, ma un’imprenditrice che ha evidenziato un problema sistemico. Stare dalla sua parte, cioè dalla parte di un’autentica e compiuta libertà d’impresa, è un dovere morale. Le sue parole, seppur dure, dovrebbero essere uno spunto per un’analisi critica e costruttiva, non per una condanna ideologica. Il vero cambiamento non si ottiene punendo chi solleva i problemi, ma risolvendo le carenze strutturali che rendono difficili le vite delle donne lavoratrici.