Paternò, speciale “Diario dal Centro Italia”: le interviste a Emilia e Salvo

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Lo speciale "Diario dal Centro Italia" pubblicato sull'edizione freepress di Freedom24 lo scorso 22 dicembre e distribuito nel comprensorio etneo. LEGGI IN PDF A QUESTO LINK

Lo speciale “Diario dal Centro Italia” pubblicato sull’edizione freepress di Freedom24 lo scorso 22 dicembre e distribuito nel comprensorio etneo. LEGGI IN PDF A QUESTO LINK

Partiamo dalla fine. Quando sei tornata qui, tra le tue cose, qual’e è stata la prima cosa che hai pensato?
Ho pensato a Norcia. Ho lasciato tutti in uno stato d’animo davvero pessimo. Adesso riesco a metabolizzare, ma ho ancora tutto davanti gli occhi. Tutti quelli che venivano umilmente a chiederci un aiuto. Per capire realmente cosa si prova dovrebbero tutti vivere questa esperienza.

A proposito di occhi. Cosa hanno visto i tuoi occhi quando sei arrivata? La prima cosa che ti ha colpito.
Siamo arrivati alle quattro del mattino. Tra il buio e le macerie non ci è sembrato neanche vero, surreale, come se stessimo guardando un film. Man mano che arrivava la luce ci siamo resi realmente conto. La prima cosa che ho visto sono state le macerie. Peraltro io avevo già visto Norcia in passato nel suo splendore, e rivederla in questo modo, distrutta, è stato un colpo al cuore. E poi un silenzio assordante.

Spiegami. Dopo avere riposato un paio d’ore, cosa avete fatto?
Colazione insieme a tutti gli altri. I residenti venivano con noi, con i volontari a fare colazione, pranzo e cena. E poi o davamo una mano in cucina, o lavavamo i bagni, o sistemavamo la sala mensa. Oppure portavamo dei pasti in ospedale dove sono attualmente ricoverati moltissimi residenti ancora sotto osservazione, sempre a Norcia.

E il pomeriggio?
Sistemata la sala mensa, nel pomeriggio facevamo vera e propria assistenza ai residenti di Norcia. Ognuno ci raccontava la sua esperienza.

Ti ricordi quella più significativa?
La casa. Da un momento all’altro non c’è più nulla. In tantissimi ci raccontavano delle loro case distrutte. Ogni volta era davvero straziante sentire le storie.

Emilia Rapisarda, volontaria Anpas Paternò

Emilia Rapisarda, volontaria Anpas Paternò

Ti è capitato di essere stanca?
No. Ci alzavamo alle sei del mattino perché si preparava la colazione e poi in me trovavo sempre la forza, uno spirito che non riesco neanche io a spiegare da dove sia venuto fuori. Facevamo anche guardia alla porta carraia, ed io stessa sono stata più volte di turno fino a tardi.

E la cosa più bella? Se c’è.
Una bambina, che abbiamo adottato. L’ultima sera le abbiamo dato una pergamena. Veniva sempre con la madre e si è talmente affezionata a noi a tal punto da diventare lei stessa una di noi. Le abbiamo conferito un riconoscimento nostro.

Quanto conta, dal tuo punto di vista, sentirsi rimotivati ad esistere dopo un dramma del genere? Quanto è importante l’aiuto che voi date per far sentire chi aiutate ancora utili, a loro e agli altri?
Non sapevano cosa dirci per dimostrarci gratitudine. Ci abbracciavano e piangevano. Quando siamo andati via è stato straziante, lo confesso. Avrei voluto passare più tempo ma la procedura è quella di restare otto giorni e poi via. Dicevamo che sarebbero arrivati altri migliori di noi, ma loro ci rispondevano che da dove comandano lo fanno certamente apposta per non farci affezionare a loro e viceversa. Non so quanto ci sia di vero, ma a me quegli otto giorni mi sono bastati per creare un legame indissolubile con quella comunità e con tutti coloro che abbiamo aiutato giorno e notte.

Il ricordo più spiacevole?
La distruzione di ogni cosa intorno a noi.

Ti è mai capitato di impersonarti? Di dire “E se fossi io?”
Mi è capitato spesse volte di vivere dentro di me le esperienze che mi sono state raccontate in quei giorni. Aggiungevano ognuno sempre più particolari, chi mi parlava, da farmi sentire parte integrante di questo dramma. In alcuni momenti è stato devastante a tal punto da alimentare un certo senso di colpa momentaneo, come se la fortuna di non essere nati e di aver vissuto in Centro Italia possa essere questa stessa una colpa. Nonostante questo e tutta l’immaginazione di cui siamo capaci, rimane impossibile sentire sulla pelle la polvere della propria casa che si sgretola, come l’hanno sentita loro, anche se io stessa ho vissuto il terremoto del Belice a Mistretta quando ero piccola. Dormii per un mese in una scuola ma sentirsi crollare la casa addosso è tutta un’altra storia.

Quanto è importante per te il fatto che dei volontari, gratuitamente, prestano aiuto in questo modo come fate voi?
Umilmente dico che a volte ho il cruccio di non riuscire a fare di più.

Da zero a dieci quanto è importante?
Cento.


Salvo io ricordo il primo messaggio la sera che siete arrivati a Norcia. Mi scrivesti che la cosa che ti ha colpito di più è stato il silenzio. Ricordi?
Certo che ricordo. E’ stato ed è il silenzio della disperazione. Dopo la prima fortissima crossa ci sono state migliaia di altre scosse che sentivamo perfettamente ogni giorno e per tutto il giorno. Le persone stavano ad ascoltare le scosse, il loro modo di convivere con il terremoto. La cosa più brutta è la desolazione, le strade vuote, la distruzione, esattamente come un film.

E’ come in televisione?
Peggio. Ed è giusto che i mass media non facciano vedere tutto. L’esperienza de L’Aquila nel 2009, dove siamo stati per tre volte in assistenza come a Norcia e Amatrice, è stata anche quella molto particolare. E’ vero che i ragazzi stanno otto giorni e poi vanno via, gli altri restano mesi e anche anni in condizioni precarie. Chi ha la casa totalmente distrutta deve aspettare che arrivino gli aiuti giusti per la ricostruzione e non è facile.

Anche per te, dimmi qual è stato il fatto più significativo.
Anziché dare io ho ricevuto tantissimo, come tutti i volontari che sono partiti. Gli stessi abitanti condividono con te la giornata e ti fanno sentire esattamente parte della loro vita. E’ un qualcosa che tutti dovrebbero vivere in modo da rendersi realmente conto di cos’è la vita e cos’è la sofferenza.

Guardando queste realtà e vivendole, ti è mai capitato di sentirti un po’ più inutile?
Si, ma la cosa più brutta è che dimentichiamo. Quando tornai da L’Aquila dissi che avrei dovuto mettere tutto in sicurezza, la prevenzione. In altri luoghi invece, specie nel Nord, questi problemi assumono tutto un contorno diverso che diventa sostanza, con una prevenzione talvolta massiccia sugli edifici. Noi quest’anno abbiamo ripreso con la campagna “Io non rischio” e siamo tornati fortemente con la sensibilizzazione sul terremoto. Mi sento comunque sconfortato dalla mia città, perché nonostante gli sforzi alla fine ti chiedono cosa è più utile fare, o perché il Comune non dice ai cittadini cosa fare in caso di emergenza. Questa città ha un piano di emergenza ma non lo sa nessuno, non esiste una segnaletica sui luoghi di raccolta. Quando andiamo in piazza a fare campagna di sensibilizzazione indichiamo un piano di prevenzione, che nessuno conosce. C’è qualcosa che non va.    

Salvatore Pappalardo, presidente Anpas Paternò

Salvatore Pappalardo, presidente Anpas Paternò

E di chi è la colpa?
Delle Amministrazioni ma anche del cittadino. Il volontario è un cittadino attivo. Da dieci anni combattiamo per avere un nostro piano comunale e ci dicono continuamente che è “quasi pronto”. Non si comprende come questo sia un rischio vero, quello di non essere preparati. Una scuola ad Amatrice era stata sistemata cinque anni fa, ed è crollata come nulla fosse. I fondi pubblici vanno controllati.

E la logistica?
A noi arriva un primo codice dalla Sala Operativa Regionale che viene allertata dalla Protezione Civile Nazionale. Chiedono disponibilità e l’Anpas Regionale invia un codice giallo a tutte le assistenze nei territori, comunicando che da lì a qualche ora potrebbe essere necessario un aiuto veloce. Noi rispondiamo e forniamo informazioni sulla nostra forza umana e tecnica. Dal giallo all’arancione ci sono ventiquattro ore per una verifica sui volontari. Dal momento in cui Anpas Regionale verifica le disponibilità viene comunicato tutto alla Protezione Civile e si concordano le personalità con mansioni specifiche necessarie. Ognuno ha la propria qualifica. A Norcia, per esempio, come elettricisti e idraulici c’eravamo solo noi da Paternò. Stabiliti i dettagli e la reale forza lavoro necessaria, il codice da arancione diventa rosso e si parte entro sei ore.

Cos’è che vi lascia dentro un’esperienza del genere?  
Mi permetto di dire che l’esperienza che io ho fatto e che gli altri volontari hanno fatto e fanno, deve essere un valore per la nostra comunità e per i cittadini, perché solo così riusciremo a creare un sentimento di solidarietà comune. Avere noi un bagaglio di esperienza nostra e tenercela per noi non ha alcun senso. L’esperienza del volontariato lascia moltissime cose dentro il cuore, perché mi fa misurare come persona, come marito, come padre, mi fa apprezzare di più le cose normali. Guardo con altri occhi mia figlia, la mia famiglia, i miei affetti. Alla fine potrai dire che il darti ti consegna molto di più.