Curriculum vitae. Quei viaggi della speranza in cerca di lavoro sognando il ritorno

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di Roberta Barone

Allacciare le cinture, prego. La voce dell’hostess non era stata mai così fastidiosa. Rimetti le cuffie, aumenti il volume fin quando basta a dimenare il ricordo di quel viaggio. A 18 anni eri talmente entusiasta di intraprendere gli studi che per lunghi anni gli studi furono poi la tua vita. La corsa al voto, la materia rifiutata con 18, la lode presa con la febbre addosso. Quelle strette di mano che promettevano certezza e che mai avresti più rivisto. La laurea. La fine di un percorso e l’inizio di un altro, dicevano. Sì, ma esattamente quale?
Sei italiano, ma non ti sei mai chiesto cosa significasse esserlo veramente. Disprezzi quel ragazzo che ha gettato nel fango il tricolore dopo una partita di calcio, ma se dovessi spiegarne il motivo, forse non troveresti le parole. Ne hai già sprecate troppe a rincorrere un futuro che non è mai arrivato. Eppure non avevi più smesso di inviare curriculum. Perfino tuo padre aveva già avvisato l’amico politico che aveva un cugino che forse poteva “sistemarti”. Ma il suo partito non prese il seggio e tuo padre non prese più il partito.
E quando i mesi, gli anni passarono a conseguire master specializzati mentre le prime pagine dei giornali pullulavano di tragiche statistiche sulla disoccupazione giovanile, un giorno ti svegliasti con l’amara idea di emigrare. Avevi visto questa parola nei muri di scuola: stava scritto “studiare per poi emigrare”. Avevi immaginato un giovane incappucciato con una bomboletta in mano, magari un fannullone messo lì per imbrattare un edificio da lui mai frequentato. Invece solo dopo la festa di diploma venisti a sapere che, a scriverlo, era stato il più bravo della classe.
Come sempre i tuoi genitori ti hanno sostenuto, anche se la notte tua madre fingeva di dormire. Ti hanno accompagnato all’aeroporto senza batter ciglio, poi dal finestrino dell’aereo li hai visti allontanare con la testa di tua madre tra le braccia di tuo padre. Avresti potuto evitare? Forse. Te ne saresti pentito? Forse. Arrivasti a destinazione consapevole che nessuno avrebbe mai potuto colmare quei dubbi.
I primi giorni sono stati una monotona alternanza tra corse e noia, tra scricchiolii di monete e quel tanfo di chiuso che risaliva dalla metropolitana. Non ti scomponevi, consegnavi i tuoi curriculum in giacca e cravatta finché un pomeriggio non hai riconosciuto per strada un tuo concittadino e ci hai trascorso tutta la sera. Non vi eravate mai salutati prima, ma si sa che tra italiani all’estero sorge sempre una strana solidarietà.
“Devi cancellarla dal curriculum se vuoi lavorare”. Non ci avresti mai creduto. Quella laurea tanto sudata, quella carta che ergeva orgogliosa tra le mura della tua camera, adesso doveva essere eliminata per far meno paura. Paura sì. “I datori di lavoro pensano che un laureato abbia più pretese, meglio levarla”. Parlava così quel ragazzo che mai avresti immaginato facesse uno di quei lavori che, forse, nel suo paese non avrebbe mai fatto, per vergogna o magari perché gli stranieri lo fanno meglio.
Ti avevano preso come assistente in un noto studio, continuavi a dire a tua madre anche se poi le telefonate terminavano in un pianto sordo. Piatti da lavare, pizze o merce da consegnare, scadenze e condizioni, tanti lavori e mai una sola soddisfazione. L’apparenza che stavi creando si faceva più pericolosa della verità sbattuta in faccia. Così hai deciso di tornare, insieme al peso di una valigia che da tempo tenevi sotto il letto per mancanza di spazio. Benvenuto in Italia, paese dei dinosauri.
Sei in anticipo di almeno venti minuti, ma ne è bastato uno solo per convertire in certezza quella enorme insoddisfazione. E quella certezza risiedeva negli occhi di chi è sempre stato lì ad aspettarti, a consigliarti, a pensarti: i tuoi genitori. Quei genitori cresciuti nell’eterna lotta tra cuori rossi e neri, tra grossi scioperi e facili concorsi, tra posti fissi e pensioni d’oro. Come avrebbero mai potuto immaginare loro tutto questo?
Domani è il tuo compleanno, ma è anche il giorno della partita. Magari alcuni amici saranno lì ad aspettarti, in quel bar che ha cambiato padrone dopo il fallimento del primo. Niente più rock, niente più metal, solo quella musica leggera che possa bastare ad alleviare l’impotenza di chi si ritrova lì, davanti un caffè che un giorno fumava di speranza.