Il pensiero della Chiesa sull’immigrazione

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ANSA/ETTORE FERRARI

ANSA/ETTORE FERRARI

di Giuliano Guzzo

La vicenda dell’Aquarius e delle 629 persone a bordo mi turba e mi interroga, lasciandomi più domande che risposte. Altri, invece – beati loro -, le risposte le hanno trovate al volo in quel «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25,35) che legittimerebbe, pare, ogni sbarco su ogni costa. Ora, se fossi perfido domanderei a costoro come fanno a dormire la notte sapendo che lo Stato italiano finanzia l’aborto (uno sfregio a Matteo 25,40), permette il divorzio (l’opposto di Matteo 19,3-6) e l’eutanasia omissiva (l’opposto del Quinto comandamento); ma siccome sono sì cattivo, ma non così tanto, mi limito a sottolineare che il pensiero della Chiesa sull’immigrazione è un po’ più complesso di un Tweet. Esso, infatti, si basa su diversi documenti, a partire dall’enciclica Caritas in veritate (2009) di Benedetto XVI, laddove vengono evidenziati, su povertà e immigrazione, tre principi fondamentali. Il primo consiste nella salvaguardia dei «diritti delle persone e delle famiglie emigrate» (n.62): chi è costretto a lasciare il proprio Paese, scrive Benedetto XVI, deve vedersi riconosciuti i propri «diritti fondamentali inalienabili»: che però questo legittimi la collaborazione tra scafisti e Ong, è assai dubbio. Anzi, lo si può pure escludere: che il fine giustifichi i mezzi lo pensava Machiavelli, non certo Gesù Cristo.

Ad ogni modo, accanto ai «diritti delle persone e delle famiglie emigrate» vi sono – afferma la Caritas in veritate – vanno considerati «al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati». Ora, per meglio comprendere quali siano i diritti delle società di approdo degli emigrati, ci soccorre il Catechismo della Chiesa Cattolica che stabilisce l’immigrato non abbia la generica possibilità – attenzione – bensì il preciso dovere di «rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri» (CCC, 2241): dunque il diritto di un Paese che accoglie è, in primo luogo, quello di vedere rispettate le proprie tradizioni culturali e religiose, oltre che le proprie leggi. E non finisce qui. Infatti la Chiesa considera come prioritario pure «il miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l’indigenza non consente loro di onorare», sia perché «nessun Paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo», sia perché anche coloro che non emigrano e rimangono nei loro Paesi, evidentemente, sono persone umane e vanno assistiti nella loro condizione di povertà.

Quest’ultima sottolineatura non va considerata marginale giacché, da quando la Chiesa ha iniziato a pronunciarsi sui flussi migratori – cioè almeno dalla Costituzione apostolica Exsul familia (1952) di papa Pio XII (1876-1958) in poi –, il Magistero è stato sempre molto chiaro nel ribadire che esiste, ancorché spesso taciuto, un diritto fondamentale di ogni cittadino ed essere umano: quello di non emigrare; o meglio, di non essere messo dalle circostanze nelle condizioni di doverlo fare. In questo senso, si comprende come mai il 7 luglio 2013, nel suo viaggio a Lampedusa, papa Francesco non abbia criticato né la politica né – come forse qualcuno forse auspicava – la vituperata legge Bossi-Fini, chiamando invece apertamente in causa le «organizzazioni internazionali». In che modo le Ong tutelano il diritto di non emigrare dall’Africa? Sarebbe bello capirlo anche perché «nessun Paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo». Comunque sia, è bene ricordarsi che il problema dell’immigrazione, a sua volta, ne contiene molti altri, che sarebbe ingenuo credere risolti con gli sbarchi liberi o con un’integrazione più riuscita. La questione migratoria può quindi essere affrontata, per un cristiano, solo in un’ottica di carità e realismo insieme. Il resto sono semplificazioni, slogan, o Tweet ad effetto e perciò fuori luogo. Anche se postati da un cardinale.