Sicilia. Il caso Galvagno e la deriva del garantismo selettivo – di A. Di Bella

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Gaetano Galvagno, presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana

di Andrea Di Bella

È bastata la notizia dell’indagine – per una vicenda ancora in piena fase istruttoria – perché il nome del presidente dell’Assemblea Regionale Siciliana, Gaetano Galvagno, venisse scaraventato in prima pagina, tra titoli gridati e cronache al vetriolo. L’eco mediatica era prevedibile: il ruolo istituzionale che ricopre lo rende inevitabilmente un soggetto pubblico di interesse, e l’informazione, in democrazia, non si addomestica.

Ma non è questo il punto. Il problema non è il riflettore acceso, bensì la regia invisibile che lo accende. In casi simili, le notizie non si materializzano spontaneamente. Qualcuno ha deciso – con tempismo chirurgico – di farle filtrare. Un dettaglio che dovrebbe inquietare più della notizia stessa: l’inchiesta era nota a tre soli soggetti – l’indagato, la polizia giudiziaria e la procura. Uno di questi ha rotto il sigillo della riservatezza, scegliendo di “pilotare” la comunicazione.

È qui che si consuma il cortocircuito del nostro tempo: la giustizia si esercita nei tribunali, ma si giudica nelle redazioni. E troppo spesso, la notizia dell’indagine assume nella percezione collettiva il peso di una condanna. Il processo si fa preventivo, la reputazione viene sacrificata sull’altare della pubblica morbosità. A nulla valgono, poi, gli eventuali proscioglimenti futuri. Il danno d’immagine, come l’infamia medievale, è irreversibile.

A rendere tutto più torbido è la progressiva assuefazione a questo meccanismo di delegittimazione indiretta. Un sistema che non colpisce più solo i corrotti, ma chiunque si trovi – anche solo per fatalità o per strategia altrui – in mezzo a una fase istruttoria. Il rischio non è più l’errore giudiziario, ma l’errore mediatico: il teorema costruito sull’ipotesi, la lapidazione affidata ai click.

Nel caso Galvagno, l’augurio è che ogni aspetto venga chiarito, con la serenità e la trasparenza che la carica impone. Ma la vicenda impone anche un monito collettivo. Nessuno può ritenersi al riparo da un sistema dove il diritto alla riservatezza dell’indagine è affidato alla discrezionalità di soggetti che agiscono nell’ombra, e dove la credibilità di una persona può essere sgretolata da una fuga di notizie, magari orchestrata, forse strumentale.

Non si tratta di difendere Gaetano Galvagno, che saprà farlo benissimo da solo e nelle sedi opportune. Si tratta di difendere una civiltà giuridica. E di ricordare che non c’è vera giustizia dove l’accusa viene prima della verifica, e la gogna precede la sentenza.