Uccide la moglie, assolto per “delirio di gelosia”

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Assolto perché incapace di intendere e volere a causa di un totale vizio di mente per “un delirio di gelosia”. Si è chiuso così il processo davanti alla Corte d’Assise di Brescia a carico di Antonio Gozzini, 70enne che un anno fa in città uccise la moglie Cristina Maioli, insegnante di scuola superiore che era stata poi vegliata per ore dal marito. La difesa dell’uomo, che non era presente in aula, aveva chiesto l’assoluzione ritenendo incapace di intendere e volere Gozzini al momento dell’omicidio, come riconosciuto dalla Corte, mentre il pm Claudia Passalacqua aveva chiesto l’ergastolo.

“Siamo soddisfatti perché la sentenza rispecchia quanto emerso nel dibattimento e cioè che il mio assistito non era capace di intendere e volere”, ha commentato l’avvocato Jacopo Barzellotti, legale del 80enne bresciano Antonio Gozzini assolto al termine del processo per l’omicidio della moglie, uccisa un anno fa a Brescia. La donna venne prima stordita nel sonno con un colpo di mattarello in testa e poi accoltellata alla gola. In fase processuale il consulente dell’ accusa e quello della difesa sono stati d’accordo nel dire che l’uomo “era in preda ad un evidente delirio da gelosia che ha stroncato il suo rapporto con la realtà e ha determinato un irrefrenabile impulso omicida”.

“Non sono solita commentare le sentenze, ma di fronte a un’assoluzione di un femminicidio per ‘delirio di gelosia’ credo non si possa tacere. Sembra purtroppo un dejavù, un terribile ritorno al passato, invece è la triste realtà. Aspetteremo ovviamente di leggere le motivazioni di questa sentenza, ma il senso sembra purtroppo chiaro e terribile: questo femminicidio non è stato riconosciuto come tale e un marito in preda alla gelosia può uccidere la moglie senza essere condannato all’ergastolo”. Lo dice la senatrice Monica Cirinnà, responsabile diritti per il Pd.

Una “soverchiante tempesta emotiva e passionale” determinata dalla gelosia, che contribuì a mitigare la responsabilità di un femminicidio. L’espressione era contenuta nella sentenza della Corte di assise di appello di Bologna che nel 2019 ridusse da 30 a 16 anni la pena per Michele Castaldo, operaio che il 5 ottobre 2016 uccise a Riccione (Rimini), strangolandola a mani nude, la commessa di origine moldava Olga Matei, legata a lui da una relazione di poche settimane. Leggendo la motivazione emergeva che proprio la ‘tempesta emotiva’ (parole citate testualmente da una perizia psichiatrica sull’imputato) aveva concorso alla decisione di concedere la attenuanti generiche: risultato, condanna quasi dimezzata. Il provvedimento, di cui si venne a conoscenza a ridosso dell’8 marzo, creò accese polemiche politiche, con presidi sotto il palazzo di giustizia da parte di associazioni in difesa delle donne e fiaccolate organizzate da amici della vittima. Tra i più critici, non mancò chi vide in questa impostazione una sorta di riesumazione del delitto d’onore. La Procura generale di Bologna fece ricorso in Cassazione sostenendo che Castaldo uccise la donna perché perse il controllo, in preda all’alcol e la Suprema Corte lo accolse, specificando che era necessario un nuovo processo di secondo grado sulla concessione delle attenuanti. L’appello bis si è recentemente concluso con la conferma della sentenza di primo grado, cioè 30 anni per Castaldo. Nella motivazione la Corte bolognese, in diversa composizione, ha messo in chiaro: si deve escludere che “il moto passionale che ha pervaso l’imputato al momento del fatto” possa aver inciso in modo “necessariamente significativo” nella consumazione del delitto. Ansa