Il terremoto e il panico dell’umanità reduce

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di Giuliano Guzzo

Passata la sbornia olimpionica, terminate le polemicucce sul burkini e a poche ore dal celebratissimo vertice di Ventotene, stamane l’Italia si è risvegliata brutalmente ferita da un terremoto notturno che ha flagellato il centro della penisola cancellando interi paesi, mettendone in allarme molti altri e prendendosi decine di vite. Uno sciame di scosse – due in particolare, ad un’ora di distanza – di alta intensità ha così messo in ginocchio una parte del Paese, ammutolendone l’altra, e restituendoci immagini destinate a restare nella memoria: l’infermiera che urla di scappare fuori, le case crollate a decine, il parroco di Amatrice che piangendo si augura di poter «trovare il coraggio per andare avanti».

Lo scenario è tremendo, disperante, apocalittico. Certo, c’è la gara di solidarietà, c’è la corsa agli aiuti e a donare il sangue, c’è l’Italia che soccorre se stessa riscattando – come altre volte ha fatto – ombre piccole e grandi che troppo spesso ne offuscano il volto. Però l’angoscia resta e soprattutto rimane la consapevolezza, prepotentemente tornata a dominare i pensieri, di essere alla fine tutti impotenti. No dico, ma ci rendiamo conto? L’esaltazione del progresso, l’allontanamento strafottente di Dio dalla vita pubblica, i pronostici di un futuro tecnologico e luminoso e poi basta che le viscere della terra brontolino appena ed eccoci qua, senza parole, a leccarci tremanti le ferite con l’augurio che stanotte vada meglio.

Credo che tutto questo – oltre a spingerci al mostrare vicinanza alle vittime in tutte le forme possibili, dalla spirituale alla solidaristica – debba fungere da avvertimento o se volete da promemoria, per tutte le volte che ci trastulliamo con quelle ambizioni ridicole, con quei piaceri effimeri e quelle conquiste volatili che altro non sono che tasselli del mosaico del Niente. La vita è breve e a volte amara, anzi amarissima da mandare giù. Per questo occorre un orizzonte di Senso, qualcosa – o più precisamente Qualcuno – che ci faccia evadere dal variopinto perimetro delle cose che contano poco per consentirci non di diventare eroi, ma di tornare uomini che sanno di essere uomini, impermeabili alla retorica e familiari alla finitudine.

Riscoprirsi umani, sia chiaro, non basterà. Ci ridesterà, d’accordo, senza però risparmiarci la vulnerabilità e senza farci mai sopportare, soprattutto, quel dolore innocente e quel pianto che da esso sgorga, come sangue dell’anima per altre anime che se ne sono andate. Eppure il sentiero della fragilità, dell’insuperabile fragilità dell’essere umani è il solo percorribile quando crollano case e certezze, quando tutto attorno si crea un vuoto così enorme che può essere riempito solo dalla Disperazione o dalla Speranza, dal vortice che risucchia la vita rimasta o dal faro che porta a rialzarsi in nome e memoria di quella che non c’è più; non per guadagnare chissà cosa o per raggiungere chissà quali traguardi ma per abbracciarsi fra reduci ed avere, se possibile, un po’ meno paura.