La carriera di Alex Schwazer è finita. Ma i dubbi sull’ingiustizia no

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di Giuliano Guzzo

Una squalifica di 8 anni non allontana semplicemente Alex Schwazer dalle Olimpiadi di Rio, ma gli distrugge definitivamente la carriera. Per questo, per quanto autorevole si consideri il Tas – acronimo che sta per Tribunale Arbitrale dello Sport -, credo sia inevitabile continuare a porsi quei dubbi che, a quanto pare, la giustizia sportiva considera stranamente irrilevanti. A partire da quel fatidico controllo a sorpresa effettuato il 1 gennaio scorso a Racines, provincia di Bolzano; un controllo che al primo test risultò negativo come negativi sono tutti gli altri successivi a cui, nel corso di quest’anno, è sistematicamente risultato il nostro marciatore più importante. E’ però successo che ad un secondo controllo, il controtest, quel campione abbia dato un esito non solo diverso ma pazzesco, con valori di testosterone – pare – anche 11 volte superiori alla norma. Una enormità che insospettisce per tante ragioni, soprattutto se si considerano altri elementi, per così dire, di contorno di questa vicenda quali l’indicazione puntuale della località dove vive l’atleta nei moduli di controllo che, tanto più dato che costui abita in un borgo di poche anime, è una possibile limitazione dell’anonimato che, in laboratorio, è teoricamente regola invalicabile; e poi i buchi nella tracciabilità della provetta, il suo lungo parcheggio a Colonia, l’assenza di uno screening iniziale delle urine e la tardiva notifica della positività.

Non serve insomma essere innocentisti per credere a Schwazer. Anche perché la manipolazione di provette per «incastrare» un atleta ha un solo precedente noto nell’antidoping moderno: quello dell’ostacolista Anna Maria Di Terlizzi. Un episodio, prima di allora, «mai accaduto nella storia dei controlli antidoping» (Repubblica, 22.2.1997) e a causa del quale il laboratorio di Roma, coinvolto nella vicenda, venne chiuso. Ebbene, sapete chi allenava la Di Terlizzi? Sandro Donati, lo stesso che segue Alex, uno che della lotta al doping ha fatto da anni una bandiera e al quale si sta da anni tentando di farla pagare; non a caso Procura di Bolzano ha recentemente aperto un fascicolo sulla base delle sue segnalazioni. Eppure di tutti questi elementi, come si diceva, la giustizia sportiva non sembra aver tenuto sufficientemente conto accogliendo unilateralmente una tesi, che è quella del marciatore dopato impenitente. Una tesi – per le ragioni che si sono dette – tutto sommato comoda, perché mette definitivamente fuori gioco sia un’atleta sia un allenatore che, su piani diversi, avrebbero avuto nei Giochi di Rio un’occasione di riscatto. Un’occasione che a questo punto sfuma ma che lascia a chiunque sappia leggere la realtà unendone i puntini, senza cioè soffermarsi sul singolo dettaglio ma cogliendone l’insieme, un sospetto forte e amaro insieme. Per quanto mi riguarda, se nel 2012 invitavo a non considerare Schwazer un mostro nonostante certi errori, oggi  – insieme a tanti altri – sono a chiedere di considerarlo un campione nonostante certa giustizia.