Elogio del viaggio consapevole ai tempi della “trolley generation”

Sharing is caring!

ME-VOY-DE-ESPA--A-768x510

di Giuliano Guzzo

Solo un folle potrebbe negare l’utilità del viaggio, il fascino dell’esotico, il piacere della scoperta: andare oltre ciò che si conosce porta sempre, in ogni caso, a conoscersi prima che a conoscere, a sperimentare la dimensione della meraviglia, a far uscire dallo spirito molta più novità di quella che ci entra dagli occhi. E solo un disonesto – o un folle, appunto – potrebbe discutere una simile evidenza.  C’è però anche una dimensione critica del viaggio scarsamente considerata a dispetto della sua attualità: il dovere di viaggiare. Infatti, anche se ai più ancora sfugge, il tempo del transito ormai prevale su quello della sosta: perché pendolari o perché avventurieri, perché migranti o perché turisti siamo in viaggio continuo. C’è ovviamente differenza fra chi viaggia per necessità e chi lo fa per curiosità, il risultato però non cambia: siamo nomadi.

E questo non può non fare pensare; non può non farci riflettere sul fatto che non sempre quello che possiamo trovare vale quello che siamo certi di perdere, che dieci fantastiche nazioni non valgono una patria e che neppure tanti nuovi amici potranno mai annullare il bisogno di radici. Di qui il dubbio: trasportiamo ancora la valigia oppure a farlo è lei? Beneficiamo di fare parte della cosiddetta trolley generation o – vuoi per paura di stabilità o per mancanza di possibilità – ne siamo purtroppo imprigionati? La sensazione è che il dovere di viaggiare abbia preso il sopravvento. Col risultato – del tutto paradossale ma non imprevedibile – che la necessità reale o indotta di visitare molte strade ci impedisca poi di sceglierne una, che il trasferimento continuo dei corpi si traduca nella staticità delle menti, così eccitate da potersi spostare che neppure più considerano di potersi elevare.

Sia chiaro: questa non vuole essere una condanna del viaggio bensì un’esaltazione del senso compiuto e non solamente geografico che ha. Perché «del viaggiare – annotava un gigante ancora poco noto come Romano Amerio (1905-1997) – si deve dire che suscita nuove idee in chi già ne ha molte, ma al contrario estingue le poche in chi ne ha poche». Per evitare che ciò accada, che il viaggio cioè si tramuti da opportunità di arricchimento ad ulteriore impoverimento, occorre una consapevolezza elementare ma decisiva: il nostro cammino è iniziato il giorno in cui i nostri genitori ci hanno accolto: il primo regalo di Natale, la torta con ancora poche candeline, la bicicletta senza rotelle. Tutto è cominciato allora. E dato che non ci è stato possibile scegliere il “quando” né negoziare il “dove”, tanto vale concentrarsi su quello che rimane: il “perché”. Lo troveremo, o forse rimarrà sullo sfondo. Ma se continueremo a cercarlo, non ci sarà almeno il rischio di aver viaggiato per niente.