Adesso tocca a noi. Ricordo di Elie Wiesel, sentinella di tutti gli oppressi

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di Claudia Cirami

È tornato insieme ai suoi. L’anziano narratore di una storia che mai avremmo voluto ascoltare ha terminato la sua corsa terrena. Con il viso rugoso ridiventato quello di un ragazzo, il passo di nuovo rapido, il sorriso non più velato di tristezza, sarà andato incontro a chi aveva perduto, riabbracciando Zipporà, la sorella minore, e la madre, sparite nella notte cupa dell’Olocausto. Ritrovando l’amato padre, perduto un attimo prima della liberazione, giunta in ritardo per quel vecchio nell’anima – i cui cinquant’anni sembravano il doppio – ormai fiaccato dagli stenti e dalle percosse, dal freddo e, soprattutto, dalla rinuncia ad un’ultima speranza. Quel ragazzo, ora, al cospetto di Dio, avrà finalmente chiesto conto di tutto quel dolore che gli sbucciò via la fede, lasciandolo come una nuda mela e sempre alla ricerca di una risposta che non sarebbe mai arrivata. Elie Wiesel si è spento qualche giorno fa negli Stati Uniti, dove viveva, ad 87 anni, dopo una vita di riandare a quei momenti, la cui memoria gli ha dato, insieme, tormento e forza per spingersi in avanti, lungo tutta la sua esistenza. L’annuncio della sua morte è stato dato dallo Yad Yashem di Gerusalemme.

Wiesel era nato in Romania, nel 1928, dove aveva vissuto infanzia e adolescenza. Nel 1955, dopo qualche peregrinazione, si era trasferito negli Stati Uniti, diventando, tra le diverse attività che aveva svolto, anche uno scrittore di successo, con ben 57 libri pubblicati. Wiesel era un sopravvissuto. Come tutti i sopravvissuti, sconfitto dentro, ma non piegato. L’orrore, per lui, non era durato a lungo: era stato internato nel 1944 e nel 45 era stato liberato. Il tempo del male, però, non è il tempo della vita né quello dell’amore: le ore si dilatano, i minuti si espandono, i secondi si spalmano lungo tutto il giorno, cosicché una notte può sembrare non avere mai termine. Quando il freddo, la fame, la fatica, il terrore ti soffocano anche un secondo di tempo può eternarsi lasciando sfiniti. L’orrore, allora, riesce ad insinuarsi nell’anima di una persona esponendola al rischio di perdere le coordinate dell’umanità, inducendola alla tentazione di divenire apolide perché non riconosce più un compatriota, misantropa perché non gradisce più avere alcuno accanto, orfana perché rifiuta il proprio padre. Wiesel aveva raccontato tutto questo in uno dei libri più strazianti sull’Olocausto, La notte. Con una scrittura che non eccedeva in un termine di troppo, che non si concedeva ad una frase fuori luogo. Ogni parola pulita, netta, asciutta. Ancora più terribile, dunque, perché priva di qualunque filtro. Manieristico o compassionevole che fosse.

L’opera ebbe una genesi travagliata. Nascosta per anni tra mente e cuore prima, scritta e riscritta dopo, persino rifiutata inizialmente. Perché non è semplice arrendersi al dolore con la maiuscola, né – per gli altri – è facile accettare l’inammissibile, l’inconcepibile, l’inescusabile. Anche per Wiesel quel processo di accettazione non fu senza patimento. Nel campo di concentramento aveva perduto qualcosa che nessuno gli avrebbe più ridato. Lui, attratto fin da bambino dal dialogo con il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, ad un certo punto pensò che il Dio dei vivi era divenuto il Dio dei morti, che il Dio dell’Esodo aveva smesso di camminare con il suo popolo. Con lo stesso trasporto con cui prima l’aveva amato, se ne distaccò. Wiesel sentì che non avrebbe più potuto benedire il Suo nome, dopo tutto quello che i suoi occhi avevano visto, il suo corpo sperimentato, la sua anima vissuto. «La voce dell’officiante si faceva appena sentire. All’inizio credetti che fosse il vento. “Sia benedetto il Nome dell’Eterno!” – scrive ne La Notte – Migliaia di bocche ripetevano la benedizione, si piegavano come alberi nella tempesta. “Sia benedetto il Nome dell’Eterno!” Ma perché, ma perché benedirLo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte? Come avrei potuto dirGli: Benedetto Tu sia o Signore, Re dell’Universo, che ci hai eletto fra i popoli per venir torturati giorno e notte, per vedere i nostri padri, le nostre madri, i nostri fratelli finire al crematorio? Sia lodato il Tuo Santo Nome, Tu che ci hai scelto per essere sgozzati sul Tuo altare?» (tratto da La Notte, edito in Italia da La Giuntina).

Eppure la sua rinuncia a Dio non l’ha condotto mai veramente lontano da lui, perché Wiesel, nella sua produzione, più volte è tornato a confrontarsi con il testo sacro. E con quell’anelito verso Dio che si fa rifiuto e poi di nuovo anelito e poi di nuovo rifiuto come nel Il processo di Shamgorod, altra sua opera, dove Dio viene processato dall’uomo, come in una riproposizione del tema di Giobbe. L’azione è diversa, ma si tratta sempre di quel silenzio di Dio che Wiesel ha sperimentato nell’Olocausto: in un villaggio della Polonia (Shamgorod), nel 1628, terribili eccidi, compiuti dai cosacchi, spingono alcuni ebrei a metter Dio sul banco degli imputati perché non è intervenuto. Cresciuto nella cultura e religiosità ebraica, Wiesel non è indifferente a quel sentire tipico dell’antico ebraismo – di cui è intessuta anche la Scrittura – in cui lo scontro dell’uomo con Dio, persino se gravissimo, cela un aspetto sorprendente: la permanenza del riferimento a Dio. L’uomo, pur scontrandosi, riconosce Dio come interlocutore, l’Unico a cui chiedere il senso del proprio dolore. Uno staccarsi da Dio che, diviene, dunque, un inaspettato tornare sempre a Lui.

Era stato Mauriac, lo scrittore e amico cattolico, a spingere quel sopravvissuto che aveva deciso di rimanere in silenzio a raccontarsi. Narrare, documentare perché tutti venissero a conoscenza dell’inconoscibile. Wiesel si lasciò convincere. Da quel momento non smetterà mai di testimoniare. In un’intervista commentava: «In tutta la mia vita adulta, da quando ho iniziato la mia vita come un autore, o come un insegnante, io cerco sempre di ascoltare la vittima. In altre parole, se rimango in silenzio, posso aiutare me stesso, ma, poiché non aiuto altre persone, avveleno la mia anima. Il silenzio non aiuta mai la vittima. Aiuta solo il carnefice. Fede? Penso all’assassino e perdo tutta la fede. Ma poi penso alla vittima e sono inondato di compassione» (dal sito www.achievement.org). Il termine “vittima”, per Wiesel, aveva assunto, però, una valenza universale, non limitata agli ebrei morti in campo di concentramento. Perché tutti coloro che subivano una persecuzione ingiusta, immotivata, inumana ora avevano trovato in lui un difensore.

Illuminante, riguardo a questo aspetto, un aneddoto raccontato in questi giorni, sul sito Cruxnow, da padre John T. Pawlikowski, professore di Etica Sociale e direttore del Programma di Studi Cattolici-Ebrei all’Unione Cattolica Teologica di Chicago. Il sacerdote ha avuto modo di incontrare e poi di collaborare con Wiesel. Andando con la memoria agli anni in cui lo scrittore aveva avuto l’incarico di allestire un Museo statunitense per rendere viva la memoria delle vittime dell’Olocausto, padre Pawlikowski ha ricordato che un donatore avrebbe voluto dare una cifra sostanziosa, ma a condizione che venissero ricordate solo le vittime ebree. «Il dono era allettante – ricorda padre Allen – perché il Congresso degli Stati Uniti stava premendo sul Consiglio sull’Olocausto per iniziare il museo, e il suo finanziamento doveva venire in gran parte dal settore privato. Eppure, alla fine, Wiesel rifiutò l’offerta. Da lì in poi, si è impegnato a commemorare tutte le vittime del nazismo, cioè i disabili, i polacchi, gli omosessuali e Rom e Sinti (gitani). Mentre Wiesel ha certamente riconosciuto l’eccezionale peculiarità dell’assalto nazista contro gli ebrei, si è impegnato con il principio che non si può mai dare la priorità ad una persecuzione».

Essere voce di chi ha sofferto, è stato ucciso, è stato perseguitato ha significato, tuttavia, per Wiesel anche uscire fuori dai confini dell’Olocausto. Così si è schierato anche a favore delle vittime della discriminazione razziale in Sud Africa, di quella politica in Argentina, con i desaparecidos, di quella etnica nella ex Jugoslavia o nel Ruanda. Il suo ruolo è stato ben inquadrato dal presidente del World Jewish Congress, Ronald Lauder, nel ricordo che ha scritto su The Time of Israel: «Elie una volta osservò: Questo dobbiamo fare: non dormire quando le altre persone soffrono in qualsiasi parte del mondo, non dormire quando qualcuno è perseguitato, non dormire quando le persone qua o là soffrono la fame, non dormire quando ci sono persone malate e non c’è nessuno ad aiutarle, non dormire quando qualcuno ha bisogno di noi». La conclusione per Lauder è scontata: Wiesel «non dormiva mai. E svegliava gli altri quando vedeva un’ingiustizia». Per il suo impegno costante in favore dell’Olocauto e per l’indubbio lavoro contro le persecuzioni, Wiesel ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 1986.

Le contraddizioni e le polemiche, gli sbagli e qualche inevitabile fallimento ci restituiscono un’immagine ancor più intensamente umana di questo testimone, segnato a vita dalla morte altrui, ma impegnato a tener lontana la propria finché è stato possibile, donando memoria e speranza al mondo. Il Presidente Mattarella, alla notizia della morte dello scrittore, ha dato una lettura in chiave attuale dell’instancabile azione di Wiesel: «Difensore della libertà, a fianco degli oppressi – ha dichiarato – la sua lezione è destinata a durare. In un momento in cui l’umanità si trova ad affrontare sfide epocali quali la barbarie del terrorismo e il dramma delle migrazioni, il suo esempio ci esorta a non deflettere dal perseguire l’obiettivo di costruire società più libere, giuste ed eque». Sappiamo quanta retorica può nascondersi in simili dichiarazioni, certe volte persino sprecate per uomini che non le hanno meritate. Tuttavia, la testimonianza di Wiesel dà ad ogni singola parola una consistenza reale e la sua è concretamente una delle lezioni più valide che possiamo apprendere in questi anni funestati dal terrorismo di matrice islamica, dai conflitti in Medio Oriente, dai vari focolai di guerra in tutto il mondo. Wiesel può finalmente riposare: il turno di veglia è per noi, ora.