Essere figli dello stesso padre, contro ogni forma di odio

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fraternità

di Giuliano Guzzo

Più giorni passano dai fatti di Fermo, costati la vita al nigeriano Emmanuel Chidi Nnamdi dopo uno scontro con Amedeo Mancini, piccolo imprenditore del luogo ed ultrà con simpatie per l’estrema destra, e maggiormente diviene chiaro come – al di là di questo gravissimo episodio, sul quale è doveroso venga fatta la massima chiarezza – per una parte assai minoritaria ma non per questo sottovalutabile del Paese ancora in balia di pensieri razzisti, ve ne sia specularmente un’altra dominata da un antirazzismo talmente esasperato da risolversi, a sua volta, in una forma d’odio. Non mi sto riferendo alle ricostruzioni iniziali di quanto accaduto a Fermo – del tutto unidirezionali e che riferivano quasi di un linciaggio ai danni di una coppia di immigrati, in cui il marito si sarebbe immolato per tutelare la dignità della moglie – alle surreali parole di commento venute dopo – un sacerdote pare sia sbilanciato, in aperto contrasto con la “svolta” ecclesiale misericordiosa verso i peccatori, a definire «senz’anima» Mancini – e neppure all’atteggiamento delle massime cariche istituzionali dello Stato, decise a essere presenti ai funerali del richiedente asilo dopo aver clamorosamente disertato quelli delle dieci vittime del massacro di Dacca.

Credo infatti che ciascuno di questi aspetti possa essere ricondotto a quanto dicevo poc’anzi circa il delinearsi – come esito obbligato del politicamente corretto – di un atteggiamento di antirazzismo ideologico, le cui manifestazioni spaziano da un costante pregiudizio positivo verso la figura dell’immigrato, ormai definita «risorsa» a prescindere, quasi che la provenienza straniera fosse automatica garanzia di virtù, ad un parallelo astio nei confronti non solo di tutti coloro che si rendono effettivamente autori di condotte razziste, ma anche verso chi non esprime aprioristico entusiasmo verso i fenomeni migratori. Quanto accaduto a Fermo – con le prime, avventate ricostruzioni totalmente smentite sia dalle testimonianze sia, a quanto pare, dell’autopsia sulla vittima – da questo punto di vista non è quindi che solo la conferma del radicamento di un’ideologia che, a differenza di quella espressa dai movimenti razzisti – che rimane da condannare senza se e senza ma -, gode di una formidabile copertura mediatica che, a ben vedere, la rende almeno altrettanto pericolosa dal momento che, come si diceva poc’anzi, di fatto semina odio; non rivolto a chi ha la pelle o la cittadinanza diversa, ma comunque odio.

Intendiamoci: non è la prima volta, storicamente, che coloro che in teoria dovrebbero contrastare l’odio in pratica non fanno che orientarlo altrove. Celebre anche se non sempre ricordato, al riguardo, l’esempio di Voltaire – da molti ritenuto e ancora oggi citato come il “padre della tolleranza”, il quale non solo non disse mai quel «non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte affinché tu possa esprimerle» (frase che dobbiamo alla britannica Evelyn Beatrice Hall), ma lucrò sulla compravendita di schiavi e definì la persona di colore «un animale che ha lana sulla testa, cammina su due zampe, è quasi tanto pratico quanto una scimmia». Proprio per questo meraviglia che simili atteggiamenti di odio diversamente indirizzato siano a tutt’oggi veicolati, se non promossi. Certo, tutte queste considerazioni lasciano comunque aperta una domanda enorme: qual è la giusta risposta nei confronti di chi odia, che sia razzista o antirazzista ideologico? Mi vengono in mente due telegrafiche riflessioni. La prima: se, come diceva Norberto Bobbio, crediamo davvero alla tolleranza, dobbiamo essere anche in grado di scommettere sulla sua capacità di essere feconda.

La seconda: dobbiamo avere il coraggio di ammettere che la tolleranza – per quanto sia un valore importante – non basta. Una convivenza davvero civile e armonica non può infatti basarsi su un principio che, in fin dei conti, è la versione elegante della sopportazione ma deve cercare il più possibile di basarsi su quello della fraternità.; ma, come già denunciato a suo tempo dal filosofo Francesco D’Agostino, è che «che non esiste fraternità senza paternità comune; e che il compito nella storia si riduce in fondo a ripetere al mondo questa verità» (Communio n.191, 1992, p. 80). Queste poche parole sono pesantissime perché toccano più profondamente di qualsivoglia condanna contro il razzismo il vuoto della nostra società, che ha ripudiato da tempo l’idea di «paternità comune» – sia in ambito religioso, sia in quello laico, come mostra la pessima fama di cui oggi gode la parola patria, letteralmente la terra dei padri -, costringendoci a riparare in quella tolleranza che, se da un lato è culturalmente sempre rilanciata e predicata da intellettuali e giornalisti, dall’altro non è che tregua fra momenti di odio. Troppo poco, mi permetto di osservare, perché le cose possano veramente cambiare.